Di Great Resignation — o Big Quit, a seconda delle definizioni — si è parlato molto nel campo del lavoro, dell’economia e della finanza negli ultimi due anni. La discussione intorno a questo trend è tuttora accesa. Se in Italia l’eco è stata più attutita, viste la minor fluidità della concezione del lavoro e una cultura imprenditoriale che fatica a stare al passo con i grandi cambiamenti della scena internazionale, negli Stati Uniti si stanno già tirando le somme di quello che potrebbe essere un fenomeno passeggero o una tendenza destinata a segnare un’epoca. A parer nostro è ancora troppo presto per valutare cos’ha significato questo movimento, le cui conseguenze — nel bene e nel male — saranno visibili solo tra diversi anni. Tuttavia, possiamo osservare come si evolve il trend e fare qualche considerazione di massima.
Se l’argomento ti interessa, ne abbiamo parlato anche in questi post che trovi sul nostro blog:
- Great Resignation: un trend che cambierà il mondo del lavoro
- The Big Quit: una nuova prospettiva
- Great Solution: la sostenibilità oltre la Great Resignation
- Great Resignation: l’occasione imperdibile (anche per le aziende)
- Com’è cambiato il mondo del lavoro: generazioni a confronto e quiet quitting.
Di cosa parliamo quando parliamo di Great Resignation
Facciamo un piccolo passo indietro e spieghiamo brevemente di cosa stiamo parlando. A partire dal 2021, in piena pandemia, negli Stati Uniti e, a seguire, in altri Paesi anglofoni, c’è stato un massiccio numero di persone che ha lasciato il proprio posto di lavoro, senza per forza avere un’altra offerta professionale all’orizzonte. I numeri sono stati impressionanti (si parla di 47 milioni di lavoratori dipendenti solo nel 2021 negli Stati Uniti) e il fenomeno è stato battezzato come Great Resignation, le Grandi Dimissioni, appunto. Semplificando molto, potremmo dire che la causa è stata la presa di coscienza che la pandemia ha innescato nelle persone, che hanno messo le loro priorità in una prospettiva diversa. In una situazione di totale incertezza del futuro, ci si è concentrati sulle cose che contano: gli affetti, la famiglia, la qualità della vita intesa come una più sana concezione di integrazione tra tempo dedicato al lavoro e vita privata. Non è un caso che i veri protagonisti della Great Resignation siano stati i Millennials, la generazione che tra tutte è stata contraddistinta dalla mancanza di certezze professionali.
Dopo la Great Resignation, il Great Recruitment
La Great Resignation ha smosso le aziende, grandi e piccole, le ha costrette a mettere in discussione i propri valori e la propria elasticità e ha creato — forse per la prima volta — un incontro reale tra domanda e offerta, dove ci fosse spazio per l’ascolto delle istanze dei singoli individui. I trentenni hanno chiesto alle aziende più flessibilità, più servizi, più welfare. Complice anche la larga diffusione del lavoro da remoto, dovuto sempre alla pandemia, i lavoratori hanno potuto fare domanda per posizioni che fino al 2020 erano inaccessibili perché non raggiungibili geograficamente. Alle aziende viene chiesto di sviluppare una caratteristica che tradizionalmente è sempre stata considerata un fattore di vulnerabilità: l’empatia. Sull’onda del trend delle Grandi Dimissioni, l’empatia è diventata una condizione necessaria per attirare a sé i talenti. Rimasti vacanti molti posti di lavoro, le aziende hanno dovuto mettere in piedi una grande campagna di Recruitment, ovvero di assunzioni. In questo contesto storico-sociale devono adattarsi al nuovo status quo e accogliere le richieste dei Millennials e della generazione Z. Devono, quindi, garantire servizi, orari flessibili e un modo di lavorare che sia funzionale a tirare fuori il meglio dai propri dipendenti. I tempi sono maturi per un nuovo modello di leadership che metta al centro l’individuo nella propria totalità, che non solo sappia valorizzare le sue skills ma che sia anche consapevole dei suoi bisogni. Perché la felicità al lavoro è un requisito imprescindibile della produttività.
Dopo la Great Resignation, il Great Regret?
Alcuni studi recenti sono concordi nell’affermare che la Great Resignation ha avuto altre motivazioni profonde, oltre a quelle economiche e sociali. Gli impiegati hanno sentito il bisogno di avere un rapporto più umano con i propri capi e i propri colleghi, basato su una condivisione di vedute e di valori. C’è però chi ha fatto notare come il turnover di persone che hanno lasciato il loro lavoro e di altre che le le hanno rimpiazzate a un certo punto sia sfuggito di mano. Molte persone hanno dato le loro dimissioni sulla scia di quello che stava succedendo a livello globale e con l’idea, spesso illusoria, di trovare il lavoro dei sogni. Una volta cambiata l’azienda, però, si sono rese conto che il lavoro è lavoro ovunque e che non sempre, a fronte di un aumento di stipendio, c’è stato un effettivo miglioramento delle condizioni. Secondo uno studio effettuato su più di 2500 persone che hanno cambiato lavoro negli ultimi due anni, più del 70% degli intervistati avrebbe dichiarato di essersi pentito — regret — della scelta perché le proprie aspettative sono state disilluse.
La difficoltà delle aziende nell’accogliere le istanze dei dipendenti
Ancora una volta a finire al centro del mirino sono le aziende, soprattutto quelle di medie e piccole dimensioni, che non sarebbero in grado di adeguarsi alle richieste dei dipendenti, in particolare dei giovanissimi, e di creare un ambiente professionale ricco di stimoli e di valori con i quali identificarsi. Le aziende si giustificano e affermano di rispondere come possono alle richieste dei dipendenti ma che, alla fine, il business è business e che la priorità dovrebbe essere sempre la vendita. Insomma, la “vecchia” mentalità del profitto a tutti i costi è dura a morire. Per evitare ripensamenti e rimpianti, ci sarebbe bisogno di una maggiore trasparenza. Da un lato le aziende non dovrebbero fare promesse che non sono in grado di mantenere, dall’altro chi fa domanda per un posto di lavoro dovrebbe chiarire le proprie aspettative. La chiarezza, il dialogo aperto e bilaterale è, a nostro parere, una risorsa che si rivela spesso vincente.