I boomer, la generazione X e la sacralità del lavoro
La concezione del lavoro è molto cambiata, di generazione in generazione. Per i boomer, le persone nate tra il 1946 e il 1964, il lavoro era una promessa, l’occasione per fare abbastanza soldi da poter investire nel mattone o per costruirsi una posizione. Non c’era ancora la concezione del lavoro come culto. La sacralità è venuta dopo, con la generazione X — i nati tra il 1965 e il 1980 — che ha fatto proprio il concetto di realizzazione professionale. La generazione X, che è anche la mia generazione, ha portato avanti la convinzione che il valore della persona coincidesse con l’impegno che metteva nel proprio lavoro. In questo modo anche il ruolo professionale diventava uno status symbol, la prova concreta del proprio successo. È con la generazione X che l’eccezionalità di lavorare fino a tardi è stata normalizzata. Più impegni è diventato sinonimo di una maggiore responsabilità e in molti casi anche di uno stipendio più alto. Naturalmente questo modello ha avuto risvolti negativi, come il manifestarsi del burnout, una sindrome un tempo diffusa solo tra chi svolgeva una professione sanitaria e che oggi è molto frequente soprattutto in ambienti professionali particolarmente competitivi.
La generazione Y e le promesse infrante
È andata peggio alla generazione Y, i cosiddetti Millennials, che hanno ereditato questa modalità del lavoro sacro ma in un clima socio-politico molto più instabile e incerto. Se molti della mia generazione sono riusciti ad avere successo — e uso il termine nel senso letterale di raggiungere i propri obiettivi — la generazione successiva ha avuto molte più difficoltà a emergere, con la crisi del mondo del lavoro, il precariato e il sistema valoriale che ha avuto diverse oscillazioni nel corso degli anni. Molti giovani della generazione dei trentenni di oggi, pur avendo accumulato titoli accademici, si sono ritrovati a svolgere lavori sottopagati o in alcuni casi si sono “inventati il lavoro” e hanno scelto la libera professione. La generazione Y è quella degli stage pagati a gavetta, esperienza e rimborso spese, dei co-hounsing e degli appartamenti condivisi per ammortizzare le spese e dei sogni infranti. Chi ha potuto ha cercato fortuna in altri paesi ma, anche tra questi, non tutti ce l’hanno fatta. È proprio tra i Millennials che è nata una nuova consapevolezza che ha promosso il fenomeno noto come Great Resignation, le Grandi Dimissioni.
La generazione Z, il futuro cancellato e la libertà ritrovata
La generazione Z, ovvero i giovanissimi nati dopo il 2000, ha ereditato un presente ancora più incerto e disastrato rispetto ai Millennials. Sono giovani sconfitti in partenza, sono cresciuti sapendo che il mondo del lavoro non avrebbe avuto nulla da offrire loro, per quanto duramente potessero studiare, per quanti Master potessero conseguire o per quante lingue potessero conoscere. Paradossalmente, però, questa consapevolezza è stato un bene perché i giovani della generazione Z non fanno coincidere la realizzazione personale con quella professionale e questo li rende molto più liberi. Liberi di battersi per le cause in cui credono, di scegliere di vivere girando il mondo o di trasferirsi in borghi isolati, di avere figli giovanissimi o di non averne affatto. Liberi di fare le loro scelte di vita slegandole dalle ambizioni professionali. La generazione Z ha altri tipi di ambizioni, obiettivi personali più alti e valori forse più genuini rispetto alle generazioni precedenti.
Perché si parla di quiet quitting in relazione alla generazione Z
Proprio la generazione Z è protagonista di un fenomeno che è stato osservato di recente e battezzato con il nome di “quiet quitting”, ossia licenziamento silenzioso. È una definizione che trae in inganno, perché in realtà non c’è alcun licenziamento o abbandono volontario del lavoro. Il quiet quitting consiste nello svolgere i propri compiti professionali senza alcuna passione, in modo neutrale. Niente più sveglie all’alba e straordinari non pagati per immolarsi sull’altare del dio lavoro ma una pacifica e onesta performance equivalente al minimo indispensabile da fare per ricevere lo stipendio. Non si tratta di un fenomeno nuovo: tanti lavoratori, in particolare gli invidiatissimi “statali”, sono noti da sempre per fare il minimo sindacale. Senza scadere nei cliché, un sondaggio condotto negli Stati Uniti a giugno del 2022 ha riportato che circa il 50% dei lavoratori statunitensi pratica il quiet quitting. Di questa percentuale, la maggior parte ha meno di 35 anni.
Verso la costruzione di un nuovo futuro
Se da un lato il quiet quitting sembra interpretare il disincanto di una generazione senza futuro, dall’altro è un dato importante per le aziende. Quando i lavoratori non si sentono coinvolti nel loro ruolo e non trovano stimolo in ciò che fanno, anche la produttività ne risente. Un sondaggio dell’Harvard Business Review ha evidenziato un dato interessante: nelle aziende prese in esame, la percentuale di quiet quitters è inversamente proporzionale al carisma dei leader. Questo vuol dire che nelle aziende ai cui vertici ci sono leader carismatici, i dipendenti si sentono meno inclini a lavorare il minimo sindacale. Sembrerebbe, quindi, che parte della responsabilità di questo comportamento sia legata alla mancanza di empatia dei manager e alla loro incapacità di trainare e motivare il gruppo di lavoro. Sarà davvero così? Come sempre avviene, a mio avviso, la verità sta nel mezzo. Da un lato i giovani della generazione Z vogliono dare priorità a valori diversi rispetto alla performance professionale, cosa che mi sembra molto sensata e che, a lungo andare, potrebbe portare a rivedere le strutture che ci siamo dati finora, come ad esempio la settimana lavorativa. Dall’altro, c’è bisogno che i leader tornino a fare i mentori e mettano la loro esperienza a disposizione delle nuove generazioni, in modo da costruire, insieme, quel futuro, non solo professionale, che le vecchie generazioni hanno contribuito a cancellare.
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