Sbagliando s’impara. Da piccola ho sentito ripetere questo adagio talmente tante volte, che le singole parole hanno finito per perdere di significato, così che l’intera frase si è tramutata per me in una cantilena priva di senso. Del resto, mi è stato insegnato che la perfezione è un valore, uno standard al quale tendere e guai ad avere aspirazioni che si discostino anche di poco da essa. Nei miei tentativi per essere perfetta, non c’era spazio per l’errore. Non che non abbia mai sbagliato, anzi! Ma le volte che succedeva, il senso di vergogna per la mia veste di perfezione non più immacolata mi faceva percepire l’errore come un privilegio che potevano concedersi gli altri, non certo io.
Quando sono venuta a vivere al nord, ho sentito per la prima volta un modo di dire che non conoscevo, non solo perché non fa parte del mio lessico familiare ma anche perché ipotizzo sia bandito dal lessico di qualunque famiglia terrona che vive il complesso di inferiorità nei confronti del nord: chi non fa, non sbaglia.
Nell’espressione sbagliando s’impara l’accento è posto sull’errore, come se l’imparare fosse un premio di consolazione: visto che non hai potuto fare a meno di sbagliare, almeno cerca di imparare la lezione, così la prossima volta farai più attenzione ed eviterai di sbagliare di nuovo. Anche perché il corollario – non dimentichiamolo – è affidato alla saggezza dei nostri antenati romani, che ci ammonivano sul fatto che, sebbene sbagliare sia umano, diabolico è perseverare nell’errore!
Invece il detto “chi non fa, non sbaglia” tratta l’errore come un effetto collaterale, quasi necessario, per il fatto di aver compiuto un’azione, che magari darà dei frutti che non sono quelli sperati ma che costituiscono comunque un risultato.
Mi viene da pensare a Cristoforo Colombo che, sbagliando rotta, scoprì un nuovo continente. Forse è un paragone un po’ pretenzioso – diciamolo – ma rende bene l’idea della questione.
Di recente ho avuto modo di riflettere su questi aspetti legati all’errore e sono giunta alla conclusione che entrambi i proverbi hanno la loro validità. Mi è capitato di fare uno sbaglio bello grosso. Ho iniziato il tirocinio per abilitarmi come coach professionista e, per un qui pro quo, gestito malissimo da parte mia – diciamo anche questo – mi sono ritrovata a mettere in discussione tutte le scelte fatte (in sintesi: lasciare il posto fisso per diventare coach) e a dirmi che forse il coaching non è fatto per me e che ho sbagliato tutto nella vita (la tendenza al melodramma e alla sceneggiata è insita nel mio DNA). Come conseguenza, sono stata un paio di settimane di un umore altalenante tra il depresso, l’affranto e il disperato. Poi ho deciso che poteva bastare e ho lasciato che la mia parte razionale riprendesse in mano la situazione. E ho fatto le mie riflessioni.
Il giudizio degli altri
Una variabile dell’errore è la differenza tra l’errore in sé vs la percezione dell’errore. Un po’ come dire: qual è la tua versione della storia? Come ne parli a te stesso e agli altri?
Si tratta di una variabile non trascurabile perché incide su un altro aspetto, tutt’altro che secondario: la gravità dell’errore. Esiste uno strumento infallibile e inconfutabile che ne misura esattamente il grado: il giudizio degli altri. Nel momento in cui lasciamo spazio agli altri di diventare giudici del nostro operato non proprio impeccabile, ci troveremo a dover gestire il feedback, prima ancora dell’errore. Nel mio caso, trovandomi di fronte agli occhi del mondo, il mio sbaglio mi è parso irrimediabile, imperdonabile, e mi sono fustigata oltremodo, come se dal mio errore fosse dipeso il destino dell’umanità (sì, lo so: quando mi ci metto, Mario Merola mi fa un baffo!). Che fare? A venirmi in soccorso, quasi misticamente, è stata senza saperlo Francesca Zampone che nel suo libro Migliora la tua autostima scrive nell’introduzione (cioè, nell’introduzione!!!): “Una persona con un giusto livello di autostima è inoltre capace di incassare un feedback negativo senza che questo la destabilizzi. La critica infatti deve essere analizzata e integrata, per poi decidere se si tratta di qualcosa di realistico da interiorizzare, o qualcosa che in realtà non ci appartiene e non ci arricchisce e che quindi deve essere lasciato andare”. Oltre a radicare in me la consapevolezza di dover ancora lavorare sulla mia autostima, questa citazione mi ha fatto riflettere sull’opportunità di scegliere meglio le persone con cui condividere i miei insuccessi, veri o presunti, e sulla possibilità di ridimensionare tutto, anche l’errore.
L’errore creativo
Gianni Rodari ci ricorda che in ogni errore giace la possibilità di una storia. Naturalmente lui si riferiva nello specifico all’errore in ambito linguistico (e c’è un’intera corrente della didattica che si basa sulla rivalutazione dell’errore) ma io credo che il significato di questa affermazione possa essere universale.
Se penso all’errore per il quale ho indossato per due settimane la lettera scarlatta, mi domando: cosa mi racconta di me? Mi parla di una persona che, intraprendendo un nuovo percorso, vorrebbe fare tutto per bene in modo da diventare una valida professionista. Ma anche di una persona che non accetta l’idea di sbagliare, perché per avere l’approvazione degli altri, deve essere sempre perfetta. Così, attraverso l’analisi del mio errore, posso rielaborare una convinzione limitante. E il racconto cambia, diventando una nuova storia. C’era una volta una donna che era terrorizzata dall’idea di sbagliare perché pensava che, se fosse successo, tutti l’avrebbero additata e avrebbero perso stima e interesse in lei. Un giorno nefasto, per distrazione o insicurezza (nessuno lo sa con certezza), ha fatto uno sbaglio. Quando se n’è accorta, con disperazione inconsolabile (ché nelle sue vene scorreva sangue partenopeo) ha sbandierato ai quattro venti le sue colpe, aspettandosi di essere punita. Ma inspiegabilmente nulla è accaduto: il mondo andava avanti normalmente e le persone continuavano a volerle bene. Così la donna ha capito che non è sbagliato sbagliare, l’importante è riflettere sugli errori e trarne insegnamento. Perché, come dice il proverbio: sbagliando s’impara.
La trappola della perfezione
Mi sono fatta anche un’altra domanda: cosa mi perdo se non sbaglio mai? Poniamo il caso che io riuscissi davvero a rasentare la perfezione, che quel giorno io mi fossi comportata in modo ineccepibile e che, di conseguenza, fosse filato tutto liscio. Ok, mi sarei evitata qualche settimana di struggimento. Però non sarei andata a spacchettare tutte le mie resistenze e i miei limiti per renderli scavalcabili. Non avrei approfondito i miei reali desideri, non avrei avuto spunti di lettura e studio. Sarei rimasta statica, monolitica. Perché la perfezione è figa, non lo nego: ti fa apparire agli occhi degli altri come una specie di essere sovrannaturale da venerare e invidiare. Ma è anche vero che non dà alcun margine di crescita. Sei arrivato o, meglio, ti credi arrivato. E allora non progredisci, ti chiudi in una comfort zone che si trasforma in una gabbia dorata. E cosa me ne faccio – ho pensato – della perfezione se mi impedisce di diventare una versione di me sempre più interiormente ricca e saggia, sempre migliore e migliorabile? La verità è che la perfezione non mi serve a niente. Preferisco sperimentare, provare, mettermi in gioco. Preferisco sbagliare. Perché, come dice un proverbio del nord: chi non fa, non sbaglia.
Articolo davvero utile,su alcuni punti mi sono rivista,alcune cose invece mi hanno illuminata, assolutamente da condividere e saprei già con chi. Grazie per questi spunti di riflessione.