L’eterna lotta tra il bene e il male

Domenica scorsa ero da sola in casa con Athena, la cagnolona di famiglia, e siccome il tempo non era un gran che, ho pensato di passare il pomeriggio guardando un horror giapponese (quando si dice: avere idee brillanti!). Solo per dovere di cronaca e perché so che esistono appassionati del genere, cito il titolo del film: La battaglia dei demoni. A mio avviso è un film brutto ma brutto davvero, quindi il mio consiglio è di non guardarlo. All’inizio sembrano due storie separate: c’è un demone che uccide tutti quelli che guardano una certa videocassetta mentre un altro demone infesta una casa del terrore e fa fuori tutti coloro che vi entrano. Poi le due storie si intersecano, in un modo anche un po’ approssimativo, e avviene una specie di incontro-scontro tra questi due demoni. La solita solfa, insomma. Quando il film è finito, ero talmente terrorizzata che sono andata a cercare conforto nella cuccia di Athena, la quale non sembrava molto entusiasta dell’invasione. Mentre accarezzavo il suo pelo nero e ispido, ho ripensato a lungo al film – lo ribadisco: uno dei più brutti che abbia mai visto – e mi sono venute in mente una serie di riflessioni.

La cultura occidentale e la dicotomia bene vs male

Noi occidentali siamo intrisi di una cultura basata sulle dicotomie: bello/brutto, mente/cuore, bene/male. Ogni avvenimento e ogni informazione vengono filtrati ed elaborati attraverso questo sistema codificato, che ha la funzione di una bussola. È un modo per interpretare la realtà e compiere delle scelte a monte: trovandoci di fronte all’ignoto, questo codice ci garantisce di poter discernere tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Tutta la nostra società si basa, a vari livelli, su questo sistema manicheo. E il mercato del cinema, invaso ampiamente dal modello statunitense, non fa eccezione. Quando guardiamo un film, sappiamo esattamente per chi fare il tifo: l’eroe e l’eroina si riconoscono dalle prime scene. Il canovaccio è, più o meno, lo stesso: ci sono i buoni che sono vessati o ostacolati nel raggiungimento di un obiettivo dai cattivi, che con la loro malvagità, la furbizia e i mezzi a disposizione sembrano avere la meglio. Ma alla fine il bene trionfa sempre e il male viene sconfitto o, nella migliore delle ipotesi, si trasforma anch’esso in bene, attraverso il ravvedimento dei personaggi negativi. Di solito non mettiamo in discussione questa struttura narrativa – molto usata anche in letteratura – perché la troviamo naturale. Come potrebbe essere diversamente?

La cultura orientale e la neutralità degli accadimenti

“La battaglia dei demoni” parte da presupposti totalmente diversi. Per la cultura orientale, infatti, non esistono categorie così nette come le intendiamo noi. Gli accadimenti sono neutri, non hanno cioè in sé alcuna valenza positiva o negativa ma sono suscettibili di cambiamento e si prestano a svariate interpretazioni. Va da sé che, all’interno della fiction, anche il concetto di eroe e di eroina venga molto ridimensionato rispetto alla nostra concezione. Nel film che ho visto domenica, per esempio, nessuno metteva in discussione la legittimità dell’esistenza dei demoni, il male non doveva essere sconfitto a tutti i costi, perché è uno degli elementi della vita, esattamente come tanti altri. Gli eroi, una coppia di personaggi bizzarri e improbabili se fossero stati in un film americano, non assicurano la vittoria finale. Anzi, lo dichiarano subito: facciamo un tentativo di salvare da morte sicura le ragazze vittime della maledizione. E infatti – attenzione: spoiler! – non ci riescono. Il film si conclude con un’ecatombe, nella quale i demoni restano nel loro ruolo di demoni e i buoni – che sono buoni solo nel nostro immaginario – soccombono.

Cosa ho imparato da questo (brutto) film

Qual è la morale del film? Forse che nessuno di noi può sottrarsi al proprio destino? Che non c’è modo di estirpare il male dalle nostre vite? Se ragiono in questi termini, applico ancora una volta le mie mappe mentali a un film che probabilmente non ha alcuna pretesa di dare delle lezioni di vita. Ma poiché sono figlia della cultura occidentale, ho bisogno di portarmi a casa degli insegnamenti di valore universale:

·       Se parto dal presupposto che una situazione abbia carattere di neutralità, posso affrontarla senza pregiudizi e allenare la mia capacità di resilienza. Ad esempio, se perdo il lavoro e non considero questo fatto come negativo in sé, anziché disperarmi posso utilizzarlo come un’occasione per rimettermi in gioco e cercare un lavoro che mi soddisfi pienamente.

·       Se affronto le circostanze che si presentano una alla volta, senza farmi sopraffare dalla paura o dall’ansia, sono in grado di superarle. Tutto fa parte del percorso e anche i problemi apparentemente senza soluzione hanno una loro valenza.

·       Se accetto di non classificare a priori ogni avvenimento, riesco a godermi anche le sfumature, le “gradazioni delle categorie”. Inoltre, smorzando gli assolutismi, mi predispongo a essere sorpresa.

·       Se passo un’altra domenica da sola, meglio un filmone romantico.

Giovanna Martiniello

Autore: Giovanna Martiniello

Sono un’introversa ipersensibile con la passione per le storie. Ho l'inquietudine tipica di chi è vissuto a lungo su un suolo vulcanico. Vivo in collina ma non potrei stare senza la città. Nel 2017 ho frequentato il Master in Coaching di Accademia della Felicità, ho mollato il posto fisso e mi sono abilitata come coach. Mi occupo di scrittura autobiografica per la comunicazione, integrando la metodologia del coaching nelle mie competenze di scrittura.

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