Eva Fabiani è una money mentor: accompagna le persone – come si legge sul suo sito – a ritrovare il controllo e la padronanza della propria situazione economica. Lavora sul tema dell’educazione finanziaria e oggi è lei la protagonista delle nostre conversazioni sul coaching.
Da quanto tempo sei coach e di che cosa ti occupi in particolare?
Ho iniziato il Master in Coaching a ottobre 2020 e mi sono diplomata coach a febbraio di quest’anno. Anche grazie a un percorso di crescita personale con Francesca Zampone, dopo aver lavorato vent’anni in finanza, a marzo 2021 ho dato le dimissioni da un posto di dirigente presso Borsa Italiana per intraprendere un cambio vita. Ho lasciato Milano, città che mi ha adottato, per tornare a vivere nella mia città natale, Lucca. A gennaio di quest’anno ho aperto la partita iva e messo online il sito della mia nuova attività: la Money Mentor. Accompagno le persone, soprattutto le donne, a occuparsi consapevolmente dei propri risparmi e investimenti per avere lo stile di vita che desiderano. Con un linguaggio semplice (che non vuol dire semplicistico) e chiaro avvicino le donne al mondo della finanza e degli investimenti, mostrando loro che occuparsi dei propri soldi con cognizione di causa non è un’attitudine innata ma un qualcosa che si impara e che è alla portata di tutte. Integro la professione di coach con quella di mentor portando passo dopo passo la cliente all’obiettivo attraverso una strada ben precisa e aiutandola a superare i molti pregiudizi che tutte noi abbiamo o abbiamo avuto sui soldi.
Quali sono secondo te gli aspetti su cui un coach deve lavorare e continuare a formarsi anche una volta diplomato? E quali sono utili da integrare anche in altre professioni?
Quando si diventa un libero professionista la formazione deve essere continua, non solo per restare al passo coi tempi ma soprattutto per essere sempre in grado di venire incontro alle necessità delle clienti. Un coach, oltre che continuare a formarsi su aspetti “tecnici” e di marketing, ritengo che debba continuamente lavorare su stesso perché non si smette mai di evolvere e crescere e questo si riflette positivamente sul nostro lavoro. Credo inoltre che sia molto importante riconoscere le specificità di altri coach e imparare a collaborare con loro facendo network. Non ho mai amato i “tuttologi” e ritengo che un buon professionista sia quello che si specializza in una determinata area e attraverso una buona rete di conoscenze sia sempre in grado di proporre alle proprie clienti, direttamente o per il tramite di altri, la soluzione ottimale. Gli aspetti del coaching che credo siano utili da integrare in altre professioni sono la capacità di darsi degli obiettivi concreti, misurabili e con una scadenza precisa, oltre alla capacità di avere una sana autostima.
Qual è l’aspetto della pratica del coaching che trovi più valido e utile?
La pratica del coaching che ho trovato maggiormente utile è l’ascolto attivo. Troppo spesso in questa vita frenetica siamo portati solo a sentire ma non ad ascoltare veramente. La tecnica dell’ascolto attivo non solo permette di entrare maggiormente in empatia con chi hai di fronte, di poterlo aiutare e indirizzare al meglio nel raggiungimento dei propri obiettivi ma è particolarmente arricchente anche per chi la pratica.
Come vedi il futuro del coaching? Quali sono le sfide professionali che dovranno affrontare i coach (e in generale chi si occupa di professioni d’aiuto) nei prossimi anni?
Le professioni di aiuto, stante il contesto che stiamo vivendo, a mio avviso diventeranno sempre più importanti e diffuse. Le sfide che vedo per i coach professionisti sono principalmente due. Negli ultimi anni si è assistito a una forte espansione in Italia della professione del coach (già molto diffusa soprattutto negli Stati Uniti) e troppo spesso anche a un abuso della parola stessa. È un’attività che ha un forte impatto sulle persone e se non è svolta correttamente può portare a danni anziché benefici. Non tutti hanno i requisiti o la preparazione idonea per svolgere l’attività di coach adeguatamente. Una prima sfida sarà data dal trovare una metodologia che certifichi le qualità di un coach al fine di riconoscere e dare valore agli studi intrapresi e all’esperienza sul campo. La seconda sfida che vedo è quella di portare il coaching all’interno delle aziende. Mai come in questi ultimi mesi si leggono articoli che raccontano di persone che “scappano” dal cosiddetto posto fisso perché si sentono frustrate o non valorizzate correttamente. Inserire il coaching nell’ambito del welfare aziendale potrebbe rivelarsi uno strumento utile per creare ambienti di lavoro da cui le persone non vogliano scappare.