Prima di cedere il passo alla rivoluzione della forma l’arte si è spinta nei labirinti dell’inconscio e dei suoi simboli

Il Simbolismo ha un suo Manifesto stilato da J. Moréas nel 1886 che ne sancisce l’affermazione in tutte le arti (poesia, pittura e musica).

Ma facciamo un passo indietro: alla metà dell’Ottocento l’avvento della fotografia rivoluziona per sempre la cultura delle immagini, inaugurando un nuovo corso – una nuova “era” – il cui dominio non è ancora finito. Il Simbolismo risponde dedicandosi a ciò che la fotografia non può riprodurre, semplicemente perché non è reale in quanto attiene all’immaginazione, al sogno, agli impulsi e ai sentimenti più reconditi.

Questa è la forza e il fascino di queste immagini ed è la prima ragione per visitare la mostra: ci trasporta in una dimensione “altra” con l’illusione ottica che si possa ‘abitare’, come certi sogni o incubi di cui al risveglio ricordiamo ogni dettaglio. Ci troviamo a tu per tu con creature inquietanti e seducenti, che si muovono in paesaggi immaginari, eppure saldamente tridimensionali.

Nello stesso periodo l’Impressionismo rispondeva alla concorrenza della fotografia, viceversa, mettendosi sul medesimo piano, quello della realtà, sfruttando le potenzialità e le peculiarità del medium pittorico, capace non solo di esprimere la soggettività della “visione” (istanza a cui l’arte non poteva più derogare), ma addirittura di partecipare, aderendovi, all’interesse e all’atteggiamento razionale e scientifico nei confronti delle ricerche nel campo della rifrazione della luce, dell’ottica etc. Ebbene sappiamo, a posteriori, che sarà questa la formula vincente, la chiave espressiva privilegiata per la “modernità” a venire, che dall’Impressionismo passerà all’Espressionismo e al Cubismo, per giungere infine alle Avanguardie nella seconda metà del XX secolo.

Nel corso del Novecento gli artisti che sceglieranno di restare fedeli al ‘figurativo’ –  per quanto in chiave onirica o ironica, lirica o metafisica – resteranno sempre un po’ nelle retrovie, per tornare ogni tanto alla ribalta, tuttavia, con picchi di straordinaria efficacia culturale, uno per tutti l’esempio del Surrealismo (pensiamo a Magritte e Dalì, tanto per fare due nomi).

Tornando al Simbolismo – come potrete osservare tra il gran numero di opere esposte in mostra – non mancano esempi di sperimentazione formale, ma sempre al servizio del contenuto e della sua efficacia evocativa e narrativa. Rifatevi gli occhi di fronte alla versione incandescente del divisionismo di Previati, alla pittura satura di trame cromatiche di Gustave Moreau, così come alle rarefatte atmosfere cariche di nostalgie antichizzanti e di visioni extra-sensoriali di Odilon Redon o ai dipinti secessionisti intessuti d’oro e listati di nero, maschere di una cultura bifronte, che ha già, in nuce, la fatale attrazione di Eros e Tanathos.

Il Simbolismo più che superarlo, forza il linguaggio figurativo ancora sostanzialmente naturalistico dell’Ottocento, per portarlo, proprio al suo scadere, a sovraccaricarsi di suggestioni, compresa quella orientalistica o preraffaellita, ma non sposandone nessuna davvero fino in fondo, e risolvendosi spesso in decorazione. Questo anche perché era una produzione artistica destinata al godimento di un’élite raffinata, colta e tutto sommato ripiegata su se stessa, che verrà ferita nell’intimo, quando non spazzata via, dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale.

Un’umanità che indaga se stessa, e che diventa essa stessa oggetto d’indagine. Da cui un’arte che si svolge tutta nelle “stanze” della mente e che, anche quando sembra raccontare di eroi e Natura, parla dell’uomo e della sua essenza.

Come? Attraverso immagini simboliche, appunto, che rimandano a quello che Jung definì “inconscio collettivo” e che l’arte ha veicolato per secoli cambiandone la forma ma non la sostanza.

Questa è la seconda ragione per cui questa mostra è capace di coinvolgere anche chi non abbia particolari conoscenze storico-artistiche, bensì un interesse nei confronti delle scienze umane: perché è l’occasione per  toccare con mano (o sarebbe meglio dire con l’occhio), la potenza dei simboli nel momento in cui su di essi si teorizzava con inedita consapevolezza ermeneutica.

Un’arte intellettualistica, letteraria tutt’altro che immediata, che parla a un pubblico che ne conosceva i contenuti e che ne condivideva le nuove istanze psicologiche, il gusto, le suggestioni.

La dimensione onirica e quella erotica sono entrambe presenti, spesso sovrapposte, in quel terreno in cui si muovono a proprio agio gli artisti e i poeti che è il “medio coscio” così come intuì il grande scrittore contemporaneo di Freud, Arthur Schnitzler.

Infine un consiglio: la mostra di Palazzo Reale è molto ricca e lunga da visitare e con qualche “intruso”, che non troppo combacia, secondo chi scrive, con la pittura simbolista vera e propria. Quindi non vi sentite in colpa se vi capiterà di saltare qualche dipinto di “paesaggio” o troppo “intimista” perché non è questo, come avrete capito il senso di un movimento artistico, sperimentale senza rischi, snob quanto basta e sedotto dalla poesia “maledetta” di Baudelaire, così come da un’umanità olimpica e ideale.

La mostra “Il Simbolismo. Arte in Europa dalla Belle Epoque alla Grande Guerra”  è a Milano, Palazzo Reale fino al 5 giugno 2016 (a cura di Fernando Mazzocca e Claudia Zevi)

Autore: Simona Manacorda

Storica dell’arte medievale per formazione e passione, lavoro nell’editoria da anni, dalla divulgazione storico-artistica ai collezionabili da edicola, cercando di mettere insieme il testo e l’immagine, il dentro e il fuori, perché credo che “più bellezza per tutti” aiuti a cambiare il mondo. Amo leggere, fare (piccole e grandi cose) e sognare… in compagnia della mia famiglia allargata, gatti compresi. Attualmente frequento il Master in coaching di ADF.

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