Pimlico – Capitolo 5

[Se vi siete persi i primi capitoli del romanzo di Michele Benetello, in fondo al post trovate i link alle puntate precedenti]

 

On A Saturday Night
Suede 1996

“Quando i tuoi amici cominciano a complimentarsi per la tua aria giovanile, puoi star certo che pensano che stai invecchiando”
Washington Irving – Bracebridge Hall

Non ci pensai più per settimane, o meglio: non pensai più alla collisione, all’incidente, perché invece a lei ci pensavo eccome, pur essendomi costretto ad evitare il rituale del sabato pomeriggio dal giorno dello scontro di Titani. E in ogni caso a sprazzi capitavano a tiro, non essendo delle facce intonse. Li avevo visti spesso nel mio erratico girovagare; il mondo è piccolo, figuriamoci il capoluogo di provincia in prossimità del buco del culo del mondo. Magari di vista ma ci si conosce tutti, anche quando preferiresti girare la testa da un’altra parte. Assidui frequentatori di qualsiasi situazione snob, li si poteva notare in pieno tiro soprattutto nei week-end, anche se non disdegnavano sortite infrasettimanali da sfoggiare in quei tre o quattro posti nei quali bisogna esserci per non precipitare fuori dal ranking della gente che conta. Li si vedeva in centro a chiacchierare amabilmente con altri pargoli danarosi, nei migliori ritrovi della gioventù bene, in qualche situazione particolare, alle feste giuste, in casa di amici di amici di amici di amici. Li avevo anche beccati a mangiare messicano una domenica sera in cui noi poveri stronzi del bar non avevamo nulla da fare e volevamo provare il brivido del chili, con lei a ridere forte cercando di farsi notare chissà da chi. Ci eravamo persino sfiorati in un locale stronzo e patinato nel quale ero capitato chissà per quale stravagante motivo, forse condotto a forza da qualche amico che aveva bisogno di compagnia; avevamo parecchie bettole (quelle dove vendono vino d’eccezione) in comune. Insomma, da fuori pareva una situazione parecchio sciocca seppure comune. Quando li incontravo mi fermavo spesso a guardare Monroe per qualche secondo, un paio di volte mi era sembrato che avesse ricambiato lo sguardo; poi me la immaginavo a letto cercando di cambiare stazione mentale per non darmi del fesso da solo.

Avessi avuto un minimo di acume e un po’ di fegato avrei dovuto averci provato già da tempo, senza indugi, tante pippe e senza curarmi dell’eventuale risultato. Mi rimproveravo aspramente di non essere mai riuscito ad abbordare una donna seguendo le istruzioni del perfetto maschio mediterraneo. Non le ho mai fissate negli occhi, non ho mai girato attorno sbavando, non ho mai usato scuse coatte, roba tipo “ma dov’è che ci siamo già incontrati, noi due?”, o “posso offrirti da bere?” oppure la peggior forma d’abbordaggio di tutti i tempi: “hai da accendere?”. Mi sentirei un verme, quindi preferisco bere in perfetta solitudine che fare certe figure da italiota medio. In genere resto imbambolato fino a che – se sono interessate – si stancano e mi mandano mentalmente a cagare (“Madonna che sfigato. Di lusso ma sfigato, quasi come una Porsche con l’impianto a gas” pensano) o, esasperate, ci provano loro. Il che, per un ego maschile, è una delle cose più inebrianti. Oppure sfodero Majakovskii. D’altro canto è anche vero che, se volete smontare ai minimi termini la superbia di qualche giovane puledra esibizionista che si reputa pari ad una giovane Nastassja Kinski, basta che la ignoriate. E più lei si scoscia, si struscia e mostra le tette, più fate finta che non stia succedendo nulla, mostrate insofferenza e noia. Anche se pare difficile per il vostro scroto boccheggiante, la cosa funziona quasi sempre. A quel punto la prenderà come una cosa personale, e partirà come un ariete, chiedendosi indispettita come sia possibile che voi – affermato etero – non subiate il suo fascino; tuttavia incapace di darsi una risposta che esuli dalla sua esperienza pregressa. Continuare ad ignorarla per un lasso di tempo sufficientemente lungo è gran godimento, perché certe donne troppo tronfie e presuntuose preferiscono essere rifiutate piuttosto che ignorate, e questo nella guerra dei sessi aiuta a conquistare qualche punto dalla squadra maschile, da sempre perdente al tie break. Pensavo fosse il caso di Monroe e quindi cercavo di guardarla senza essere visto, non avvicinandomi troppo e lasciando che il tempo facesse il suo corso; non avevo nessuna intenzione di provare a legarmi per un lasso di tempo che sforasse qualche ora notturna. Era affascinante, sembrava stronza e non avevo bisogno del terzo indizio per darmi come termine ultimo soltanto una bella ingroppata e sigaretta post coito prima di salutarla e lasciarla ai suoi amici facoltosi. Se erano rose prima o poi avrebbero dovuto pungerci, no? Anche perché qualcuno disse che ad una donna bisognerebbe avvicinarsi soltanto quando è in arrivo un’erezione, e scappare subito dopo. Una volta ci siamo scambiati anche qualche timida parola, appoggiati all’affollato bancone di un bar, mentre aspettavamo una birra ghiacciata o qualcosa di simile. Oh, poca roba, giusto un “qui non ci filano proprio, saranno dieci minuti che aspetto” detto con impazienza e con dizione perfetta da lei; ed un “nessun problema, sto benissimo qui” risposto da me quasi tremante. Un paio di sorrisi, un “davvero?” dagli infiniti significati reconditi buttato nell’aria da lei e un suo svolazzo di culo prima di voltare le spalle e tornare dai suoi amici. Io ho bene impresso quei pochi secondi, visto che poi ho passato la serata a sbirciarla,  figuriamoci se invece a lei passa per la memoria.

In ogni caso dovevo continuare la mia vita, seguire il consiglio di Lucignolo e renderla una Bella Vita; rimetterla insieme pezzo per pezzo. Qualcuno – assieme al mobilio – se n’era portato via una fetta e le mie cellule necessitavano di tempo prima di riuscire a riprodursi e riunirsi. Compravo il dolore in quantità industriali e lo rivendevo al mercato dell’usato facendoci la cresta. Non avevo tempo, per arrampicarmi in altre relazioni affettive; ed oltre al tempo credevo di non avere più nulla, se non rimproveri, da farmi. E poi, a causa delle donne ne avevo i coglioni pieni. In tutti i sensi.

Volevo prendermi un paio di rivincite, qualche piccola vendetta o rappresaglia sparsa e fare in modo che le donne potessero avvicinarsi solo alla parte spugnosa del mio corpo, senza mai toccare cuore o cervello. Ero pronto a prendere Monroe in qualsiasi luogo, afferrarle i capelli e tenerle ferma la nuca mentre combinavamo le nostre cose prima di separarci con una stretta di mano, mille bugie e un po’ di schifo addosso. Ma la vita è strana, e quello che immagini essere un giochetto diventa una bomba al neutrone pronta a scoppiarti in faccia e a rimarcare ferite che ancora si devono cauterizzare. Non sapevo ancora che la confusione potesse diventare cosmica sotto questo cielo. Di merda. Anche perché ero convinto che le coppie dovessero essere assortite in maniera precisa, accompagnate come si accompagna una cravatta a una determinata giacca, o come si unisce il colore di una camicia a un paio di pantaloni classici. Gli orsetti devono accoppiarsi tra loro, non possono accompagnarsi a scoiattoli o a pachidermi. I vermi possono aspirare solo a esseri larvati mentre i felini hanno qualche chance in più perché ben s’adattano. Io e La Prima Repubblica Sentimentale eravamo due scoiattoli ben assortiti poi qualcuno è diventato un licantropo. E forse non è nemmeno stata colpa sua. Stregata dalla luna, si dice. Una coppia cromaticamente sbagliata è destinata a fallire. E non mi riferisco al colore della pelle, da questo avrei dovuto capire come questo gioco stavolta non facesse per me.

Li rividi bene, mettendoli perfettamente a fuoco, qualche settimana dopo, in una calda e sudata notte al Joy, quel posto simil-rock che ci carezzava i fine settimana; una notte anomala, dove le ondate musicali proiettate erano abbastanza buone rispetto alle pacchiane medie di quello scalcinato club e dove ero andato a farmi ammazzare dal sudore altrui, trascinato a peso in una macchinata, stretto nei sedili posteriori tra Lino e Simone, tutti con il loro bicchiere di vodka in equilibrio tra le gambe. Tra Alright dei Supergrass e Common People dei Pulp il tutto improvvisamente si accese. Alle tre del mattino circa, dopo due ore di  intenso studio del terzetto. Due ore di intermittenti fantasie erotiche su Monroe. Per me, due criceti. Così ci immaginavo. Così eravamo abbigliati e così eravamo arrivati quasi a sfiorarci, con mio estremo terrore e sconcerto.

Timidezza, la mia, di quelle radicate, potevo venir fuori con acume e brillantezza d’animo solo dopo una conoscenza più che approfondita. Il che, in certi casi, poteva voler dire anche mesi, perché se il mondo va a benzina io avevo capito fin da piccino di essere diesel. Aveva ragione il panzuto Morrissey quando cantava “shyness is nice, but shyness can stop you from doing all the things in life you’d like to…”; certe volte rimanevo ore a pensare che probabilmente tutti i miei dischi e tutte le mie letture, tutte le notti passate a divorare libri e riviste erano solo un palliativo per non ammettere un trauma infantile. Non si può cominciare a tremare e sudare quando si parla in pubblico o quando si avvicina una donna, erezione o non erezione. Caldo, luci, corpi di tutte le fogge, decibel, umidità, ormoni impazziti. Una situazione che al Joy sopporto quasi ogni sabato sera. Talvolta di buon grado, quando non c’è nulla di meglio. Ma in certi momenti avverti un quid tutto particolare, un rumore di foglie calpestate, ti si rivelano delle auree seducenti, senti flettere i cavi dell’elettricità, ti aspetti qualcosa. Uno dei rari momenti che ti si cristallizzano addosso; forse è per questo che mi avvicino mentre si sta rinfrescando a braccia nude in prossimità di un’uscita di sicurezza e la sfioro impercettibilmente. Le arrivo a pochissimi micron dal braccio nudo, credo che i miei peli le facciano il solletico, e il mio respiro affannoso le arrivi là dove la schiena ai glutei s’accompagnano. Non si è accorta che qualcuno si sta avvicinando. Si gira improvvisamente  – bellissima, da far perdere il senno e l’equilibrio – e mi guarda con un espressione tra lo stupito e il malizioso. Lo sento il corpo elettrico.

“We Have Explosive” – Future Sound Of London

Un nanosecondo nel quale quattro occhi giocano a fioretto, a dama, a domino, a sudoku; un nanosecondo nel quale ci diciamo – o meglio, io mi immagino dirle – un giorno ti prenderò, te sola o con tutta Parigi! Milioni di parole con uno sguardo fantasticando di inchiodarla al muro. Adesso la fermo mi ripeto, adesso le dico qualcosa, adesso la faccio innamorare, adesso smuovo il mondo per comperarle una di quelle palle con l’acqua dentro, quelle che agitandole ti fanno vedere la neve; adesso arriverà un braccio meccanico che la alzerà, portandola via da me, adesso… basta una parola, una mano sul braccio, una frase, un colpo di tosse, uno sguardo magari, fai qualcosa, qualsiasi cosa ma non rimanere autistico ed impietrito. Muovitimuovitimuo…Niente. Soltanto un improvviso dietrofront che si conclude con uno sconsolato accampamento vicino alla postazione del D.J. e – invece di insultarmi da solo fino alla fine dei tempi – per riprendere fiato comincio a snocciolarmi il Golgota di tutta la letteratura che ne consegue, in un lungo rosario perfettamente inutile e autistico: non chiamare mai consolle il banco del disc jockey, termine usato dagli operai del disco, quelli che lavorano (lavorano?) nelle discoteche Mathausen; immensi insulti alla miseria, zeppi di griffe e motori sedici valvole, telefonini e scopate con non-mi-ricordo-più-chi-fosse-ieri-sera-ma-tu-che-macchina-hai-ti-telefono-in-azienda-appena-posso-piergianluca-filippopaolomaria.

L’uomo giusto, il fanatico, il figo, l’Afrika Bambataa de noantri, ha il banco, la postazione, il fortino, la base, chiamatela come volete; basta una tavola, un mixer e due piatti  e/o due lettori cd. In compenso ha la sua valigetta con i dischi che vale più di un pezzo della casa dove abita il Giangifilippopierpaolomaria. Potete anche chiamarla consolle, con una o due elle, come volete, ma prima va ricordato che non è una Playstation e che serve fare domanda ufficiale per poter usare il termine. Ne parlo con cognizione di causa perché anch’io, tempo addietro, ho fatto il mescidischi. Molto prima di sposarmi, naturalmente. Tra il 1984 e il 1987 per l’esattezza; non il periodo più bello – quei tre anni – per il rock, anzi mesi piuttosto mosci, epperò sono ugualmente riuscito a divertirmi. Erano altri tempi, in cui il downloading non imperava e nei quali per riuscire a trovare i dischi dovevi armarti di pazienza e tanti francobolli; non come oggi che tutto lo scibile discografico è a portata di mouse, rendendo assolutamente priva di poesia la lunga caccia che dovrebbe sottendere ad ogni buon disc jockey. Cosa che io non ero, a dirla tutta – e difatti uso sempre il termine mescidischi – ma ci mettevo passione e tanta foga. Ero un Brancaleone alle Crociate, facevo tenerezza. Subito dopo il punk e la new wave – ovvero le più belle esperienze della mia vita – ero andato a propormi con la mia sacca di vinili in giro per i locali. E senza fare la figura di un nostalgico Gianni Minà ricordo con precisione e nitidezza parecchie serate passate dietro un improbabile mixer e due (due quando andava bene) scalcinati giradischi privi di regolatore di bpm a scrutare nella penombra, a far conoscenza nei pressi del bar della più stolida feccia umana: tossici, prostitute e gente dalla fedina penale uguale al mio libretto sanitario. Bei ricordi anche, che a guardare a quei tre anni provo sempre tenerezza verso i piacevoli ricordi di gente alla quale tanti manco si avvicinavano. Viceversa tanti bei cherubini della bontà, irreprensibili e tutti d’un pezzo, sono dei figli di puttana arroganti che al confronto Jeffrey Dahmer è un piacevole vicino di condominio. Non che voglia passare per il San Francesco di turno, ma sono convinto che – sapendolo approcciare – anche un leone ti potrebbe leccare la mano invece di sbranarti, viceversa un gattino potrebbe rovinarti il viso per sempre. Per questo faccio molta attenzione alle donne. Molta, ma evidentemente non abbastanza a vedere il casino che mi porto appresso. La mia ex signora, ad esempio, la conobbi proprio durante una di quelle nottate rimanendone affascinato da subito, incapace di portare a termine la misera scaletta che mi ero preparato a casa; me la ricordo come fosse ieri, con i suoi braccialetti impigliati in uno stretto maglione a collo alto e dei jeans impeccabili. Parlammo come se ci fossimo conosciuti da sempre fino alle sei del mattino in quel colpo di fulmine reciproco che in capo a sei mesi già ci faceva cianciare di matrimonio. E la leggenda urbana che vede il dj attorniato da donne è – appunto – una leggenda; almeno nel mio caso. Tolta Kornelia non ho battuto chiodo in nessuno di quei fottutissimi 36 mesi, mentre tutto intorno a me sembrava ci fosse un mondo di rapporti promiscui: baristi, buttafuori, addetti al guardaroba, persino i parcheggiatori ogni tanto calavano l’asso. Io zero. Ecco cosa c’era intorno a me: un mondo di trombate che manco mi sfioravano. Altro che Vodafone.

Si finisce tardissimo a fare il dj, soprattutto in estate. O così almeno ricordo io, visto che non era raro trovarsi verso le sette del mattino, sfatti come coccodrilli, in qualche bar a bere un caffè doppio e poi accucciarsi da qualche parte a succhiare un ghiacciolo all’anice (di un blu spaventosamente felice) tirando le somme e raccontando gli aneddoti della serata appena trascorsa. Ci si ragguagliava sulla fauna umana, su cosa si era riusciti a trovare in bagno (il mio record fu ottocentomila lire abbandonate sulla finestrella di un cesso e un sacchettino di materiale psicotropo a forma di smile che mi scese dall’asciugamani automatico e che un barista riuscì a smerciare in 24 ore) prima di passare a scherzare sulle curiosità che ti giungevano in prossimità del mixer. E quanta umanità in quelle pischelle sperdute che ti porgevano domande tra le più astruse mai formulate; quanta tenerezza nelle donzelle timide e in disparte che mandavano l’amica a chiederti gli Smiths per poter ballare un pezzo (ma mettimelo presto per favore che devo andare a casa...), o negli stilosissimi uomini nerovestiti che si credevano vissuti (e magari qualcuno lo era pure) e ogni due minuti si aggiustavano la cravatta amaranto per poi chiederti con un cenno i Fields Of The Nephilim, dimostrando di essere ultra cool e poi  – quando cedevi alle insistenze e li accontentavi – li vedevi al bar con qualche zoccoletta minorenne. O ancora nella perfetta pronuncia di quelli che erano andati almeno una volta in vita loro al Plastic, subendone l’epifania, e si smielavano reclamandoti Sisters Of Mercy e Cure. Mi è capitato di tutto in quegli anni: chi chiedeva Nick Cave mentre si stava suonando Mantronix, chi voleva gli Eagles oppure Siouxsie And The Banshees (quasi l’uno o l’altra pari fossero), chi ti faceva – apposta – i nomi dei gruppi che dovevano ancora uscire e che avevano letto sul catalogo Rough Trade o sbirciato in recenti viaggi londinesi, solo per scuotere la testa con fare altezzoso, irridendo il tuo sguardo incredulo.

Ecco perché è importante mettersi a sedere vicino al D.J., farsi trovare in zona in modo che con un’unica occhiata si riesca a vedere cosa succede dentro quell’orgia di suoni. E’ come comandare l’intero locale: si può sapere con qualche secondo di anticipo quale sarà il brano successivo, (privilegio da sfoggiare se siete appartati con qualcuno, di qualsiasi sesso e se avete una conoscenza della musica da poter riconoscere un brano soltanto da un frammento della copertina), si può veder passare – quasi – tutti, e in genere, oltre a essere il posto più fresco dell’intero locale è il posto dove passano le donne più belle. Che non sono necessariamente le più affascinanti. Una donna può essere bellissima ma non avere un grammo di fascino; viceversa un’altra può essere soltanto discreta ma piena di quel quid magico che la porterà sicuramente a nascondere le differenze estetiche e a sbaragliare la concorrenza. Barbra Streisand o Liza Minnelli ne erano dimostrazione.

Mi sedevo sempre lì, ogni schifosissimo sabato, abitudinario come un ingegnere meccanico con la mia bibitina ghiacciata, aspettando chissà cosa, forse solo l’attesa. Mi fermavo a puntare qualcuno cercando di non essere visto, sempre qualcuno di diverso, il mio rituale di sacrificio umano del week-end, qualcuno che ai miei occhi potesse risultare particolarmente interessante; magari solo in base a determinate scelte quali una maglietta, un taglio di capelli, uno sguardo timido, un paio di tette; cercando di carpire o soltanto immaginando quali fossero le sue peculiarità mentali, i tic, la voglia di socializzare. Nessuna relazione sessuale, soltanto un modo come un altro per incamerare dati e passare il tempo. Dopo mesi di appostamenti e di studi antropologici, dopo migliaia di dati incamerati e di occhiate rubate avevo scoperto e catalogato varie classi di primati che orbitavano attorno a quella pista fumosa. A partire dal branco, costituito da una miriade di cani sciolti pronti ad accorparsi appena sentono profumo di pericolo o di gnocca; sfigatelli con camicie sbiadite, capelli lunghi, che battono le mani quando sentono i Nirvana; ma solo Rape Me o Smell Like Teen Spirit, qualche rara volta Come As You Are; faccia e mani da immediato dopoguerra. Incapaci di proferire una parola in italiano puro si esprimono principalmente usando i termini Urgh! e Figa. Con ancora nei geni arcaiche e barbare usanze come lo Ius Primae Noctis e la Legge del Maggiorasco. Generalmente di sinistra, ma pronti a svicolare a destra e a mandare a cagare l’extracomunitario che li approccia per cinquanta centesimi nel parcheggio dei supermercati. Molto simili agli animali in quanto anch’essi usano il metodo del Territorial Pissing, giusto per continuare a citare i Nirvana. Codesti figuri non hanno la minima idea di cosa significhi la parola garbo, essendo l’anello mancante della teoria Darwiniana. Si riconoscono altresì dall’abbigliamento, che può avere residui di trip psichedelici o Travoltiane stramberie che meriterebbero l’ergastolo. Bevono birra. Qualcuno osa il capello lungo sulla camicia aperta fino all’ombelico e la catena d’oro al collo. Cose per le quali la pena di morte è ancora troppo poco. Scremando, il gradino dopo è costituito dai Neanderthaliani di lusso, ovvero un piccolo passo avanti nella catena umana: capelli ossigenati, orecchino – possibilmente piercing – al naso, pantaloni taglia XXL, seguaci di Puff Daddy e Marilyn Manson sono convinti che i conduttori di MTV siano esperti di musica e – di rimando – hanno un timore reverenziale degli stessi che ha del patologico; danno le dritte e sono accompagnati da quattro o cinque esponenti del branco, freschi di iniziazione, ai quali dicono: “balla scemo, sono i White Stripes, questi” e da un paio di pollastrelle tanto belle quanto generose e incapaci di avere il quoziente intellettivo oltre quello della farina, ovvero doppio zero. Vanno avanti a Havana Cola o birra. A differenza dell’altra classe di primati possono essere terreno fertile per colonizzazione e manovalanza; apprendono quasi subito e si pongono poche domande. Uniche controindicazioni: si affezionano come cani e non ti mollano un attimo. Oggi ciò che resta dei locali rock è un tripudio di macchiette simili. L’eutanasia è una bella cosa, in taluni frangenti.

C’è anche parecchia fauna normale, sia maschile che femminile; ed è lì che di solito si concentrano i miei riti notturni. Personaggi garbati, desiderosi soltanto di passare una serata in armonia e divertimento, che non hanno pretese di nessun genere e che arrivano per godersi appieno la nottata; bevendo quello che capita, vestendo di conseguenza (ma sempre con un tocco di buon gusto) senza necessariamente sbavare su ogni esemplare che passi loro davanti. Bella gente, nonostante tutto, spesso sufficientemente acculturata e sovente con delle gnocche da paura al fianco. Sicuramente meglio dei finti alternativi, degli annoiati cronici, dei depressi oscuri, degli alcolizzati inconsapevoli e dei fighetti in libera uscita che sudano ogni venerdì su danze caraibiche. La libertà condizionata contro patteggiamento se la meritano appieno. Il gotha è costituito da pochissimi, forse non più di una mezza dozzina di persone in tutto il locale, arrotondando per eccesso. Non hanno un particolare codice d’abbigliamento ma la loro aurea seducente li accompagna come una scia; d’altronde per censo, fisico imperiale e carisma qualsiasi straccetto calza loro a pennello; non si fanno vedere spesso accompagnati da donne, anche se le donne sbavano per accompagnarsi a loro. Seguono P.J. Harvey e Radiohead, conoscono quasi tutta la scaletta dei D.J., ballano pochissimo e hanno sempre un ghigno snob sulle labbra. Carburano solo con super alcolici o bottiglie da mezzo litro di acqua minerale. Pericolosissimi in quanto le donne si girano a guardarli con aria concupiscente. Non sono gli ultimi arrivati e la loro età non scende quasi mai sotto i trenta. Quasi immortali. Spesso vengono presi a calci dai ragazzi con i calli alle mani. Assolti con qualche riserva.

Poi ci sono io, razza in via d’estinzione che oscilla tra Topo Gigio e il Brian Eno del 1972. Un dilettante geniale, pure un pochino sfigatello per non essere stato in grado di provarci con Monroe, essendole arrivato ad un centimetro prima di cambiare sentiero. Quasi come i gli atleti del salto in alto, quelli che spendono secondi per prendere la rincorsa giusta, contando minuziosamente i passi, respirando con frequenze esatte prima di fermarsi appena sotto l’asticella, scuotendo la testa, disillusi. O come alle superiori, quando avevamo in classe Lilly, la donna più disinibita dell’universo, da noi soprannominata Sendero Luminoso senza che io stia tanto a spiegare il perché. Lilly, che conosceva a menadito la forma del pene dell’intera sezione e ci ricamava sopra anche interi trattati filosofici che noi stavamo ad ascoltare col fiato sospeso; la Lombroso delle uretre, la groupie di ogni studente di tutto il piano. Una manna dal cielo per noi brufolosi sfigati pronti a farci le pippette sugli Europei di Basket, sui telefilm dei Survivors o sul nuovo disco degli Ultravox. La Lilly che avrebbe dovuto prendere il Nobel per aver fatto passare lo stress a parecchi coetanei; la Lilly che, nella prima gita scolastica del terzo anno, volle assolutamente fiondarsi in camera mia e di Raul (l’unico compagno che aveva l’auto, noi lo chiamavamo Raul Madrid perché era pieno di soldi) assieme ad un’amica per farci provare l’ottovolante del suo inguine. E che io respinsi come un coglione, terrorizzato dai suoi germi, dopo che avevo passato almeno un intero quadrimestre ad immaginarla su ogni piastrella del mio bagno. Il tutto in tempi di pre-Aids. La Lilly che, instancabile, ci riprovò la seconda notte, segnando forse il goal più difficile della sua intera carriera di equilibrista del basso ventre, per una cosa meccanica e rigida come le navi rompighiaccio in pieno pack antartico che ci lasciò entrambi sgomenti e ci allontanò definitivamente. La Lilly che ho perso di vista qualcosa come venticinque anni fa, ma che sono convinto prima o poi di ritrovare in qualche bel sito a pagamento su internet o in qualche supermercato, sfatta dalla vita e con tre figli al seguito; e che spesso mi chiedo come possa essere ridotta. Ho ancora impresso il suo commiato, la sera in cui tutta la classe si trovò a festeggiare la maturità conseguita, quando salutandoci mi disse, seria “ricorda caro, ci sono stati troppi uomini nella mia vita, ma troppa poca vita nei miei uomini”. La Lilly che, se ancora mi sovviene, qualcosa dovrà pure aver avuto, oltre ad un’instancabile voglia di testare tutti gli esemplari umani di sesso maschile che le si paravano davanti. Come che sia, invece di provare ad instaurare un benché minimo rapporto di innocente conversazione con Monroe, un piccolo ed incoraggiante passo di avvicinamento alle sue mutandine, mi sono perso in inutili seghe mentali come mio solito.

Seduto su un morbidissimo divanetto dove macchie assortite provenienti da chissà dove giocano a scacchi, ripassando l’omelia delle classi umane con un sorriso beota e la lingua tra i denti, quando improvvisamente scorgo Danny avvicinarsi in maniera che a me pare pericolosa ma che forse non lo è. Sta a vedere che mi dice qualcosa perché ho sfiorato la sua bella, le persone sono così aggressive a volte che per smontarle basta dar loro ragione. Sono già pronto a scusarmi e a proteggermi setto nasale e gioielli di famiglia quando è a non più di venti centimetri dalle mie orecchie.

“Ciao” si abbassa. Che non si azzardi a baciarmi, qui davanti a tutti. Un po’ di contegno, se proprio vuole farlo mandi pure avanti quel felino biondo che lo accompagna.

“’Ao” insomma: che vuole questo?

“Bella la maglietta” continua. Eccomenò, i Menswear? Maddai! Vorrei proprio chiederti nome e cognome del cantante o del chitarrista. E vedere come te la cavi. Io sono un fan. Voi siete timidamente interessati. Forse. Bello il tuo esordio, volevo dirgli. Comunque sei stato bravo, non è da tutti capire che ‘my favourite thing has gone away and I know it won’t be easy now but I’ll manage somehow’ è un testo dei Menswear che illustrava egregiamente il mio stato d’animo post-separazione e che quindi non poteva che finire su una t-shirt. Forse è per quello che sono così attaccato a quella maglietta, a quel singolo e a quella band di cacca caccosa sparita nel nulla due decenni orsono. Dove è finita tutta l’arroganza e l’aggressività che mi aspettavo? Non ho preso in considerazione un atteggiamento passivo. Cambiare mappa. Elasticità.

“Mmh…” socievole come un paio di ciabatte, io.

“Posso chiederti dove l’hai presa?” ritenta, con un lampo spazientito negli occhi e alzando leggermente la voce, perché i decibel qui sotto sono davvero troppi. Si vede che vorrebbe intavolare almeno un minimo di conversazione.

“Sono stato al concerto qualche anno fa, anzi più di qualche anno fa” cerco di ribattere con la massima serietà musicale di cui dispongo e con i residui di fiato che escono dalle mie corde vocali rinsecchite. E’ una bugia grande come il cofanetto Nuggets, ma non ho nessuna voglia di star qui a spiegargli la genesi della maglietta fatta a mano, motivi compresi.

“Cazzo, li hai visti davvero?” o mi prende in giro o è subnormale. Ne parla come se fossero i Beatles; mentre erano solo un gruppetto mediocre sciolto da venti anni che pare nessuno più ricordi. Porto pazienza e continuo “Tu che dici? Manco ti conosco e sto qui a raccontarti fregnacce?” ecco, ci sono ricascato. L’ho perso, giuro. Ma non smetto di girare gli occhi come il periscopio di un sommergibile, per vedere dov’è finita la titolare delle mie mutandine preferite.

“Beh, chiedevo…” penso stia per indietreggiare, lasciamolo almeno con un buon ricordo: “No, scusa, lascia perdere, sparo cazzate. Vieni, ti offro da bere…”.

Mi guarda tra lo spaventato e l’incredulo, devo tranquillizzarlo “e non fare quella faccia, non ti voglio abbordare, sono etero…Allora, che fai?”continua a guardarmi allucinato. Dovrei essere io quello stupito, fratello. Io, il Moby Dick delle conversazioni, la murena degli incontri in discoteca, il dissociato sociale del sabato sera. Mi sta accadendo qualcosa di strano. Fino a pochi minuti fa l’avrei fatto fuggire terrorizzato. Ma lui è Danny e Danny, oggi, significa Monroe. Che significa conoscerla, che significa possibile approccio, che significa biancheria intima da annusare e strappare con i denti, che significa poco probabile ma possibile zompaggio in qualche sedile posteriore entro breve, che significa sigaretta post coitum che significa chiudere la settimana in bellezza. Che significa porta pazienza, facci due parole e butta sto deca per due birre che non si sa mai.

Bancone del bar, una fastidiosa luce blu e due esemplari di foemina complex pronte a ghermirti il portafoglio e la drink card. “Che prendi?” lo chiedo a denti stretti, mi sono già rotto i coglioni. Indica il frigo birre, lo indico anche io e alzo due dita verso la prima foemina complex. 10 stramaledetti euro e nessuna voglia di bere birra. “Allora, che ti pare?” cerco di intavolare una pur minima conversazione giusta perché sono educato mentre, con la coda dell’occhio e le ascelle pezzate, vedo avvicinarsi Banana e Monroe. Lino e Simone, da un lontano angolo del locale mi guardano e ridono. ‘Sti stronzi.

Un Consiglio:
http://ilmiolibro.kataweb.it/libro/narrativa/42120/pimlico/

Tre Parole:
“E’ vero che tutti possono avere quindici minuti di notorietà, è altresì vero che io ne ho avuti solo sette e mezzo” (Billy MacKenzie)
“Non piangere perché è finita, sorridi perché è accaduto” (Dr. Seuss)
“Le note sono come le persone. Devi alzarti e salutarle una a una” (Wayne Shorter)

Dieci Suoni:
Kevin Ayers The Unfairground 2007

Randy Newman Good Old Boys 1974

The Telescopes Hidden Fields 2015

Taj Mahal Tai Mahal 1968

Edwyn Collins Home Again 2007

Guru Guru Dance Of The Flames 1974

Hoyt Haxton Fearless 1976

Babyshambles Shotter’s Nation 2007

FFS FFS 2015

Phoebe Snow Phoebe Snow 1974

 

[Trovate le puntate precedenti qui: Capitolo 1Capitolo 2Capitolo 3Capitolo 4]

Autore: Michele Benetello

Ex un po’ di tutto, vivo da participio passato in mezzo a un gruppo funzionale costituito da due atomi di carbonio legati tra loro con un doppio legame, e tre atomi di idrogeno derivato dall’etene (etilene) per perdita di un idrogeno. Si chiama vinile. Mi piacciono le conchiglie, i cani, l’inverno e Cindy Crawford. Se rinasco vorrei essere Johnny Dean nell’esatto istante in cui indossa la giacca da ussaro a Top of The Pops. Per ora mi accontento.

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