Pimlico – Capitolo 30

Love Is A Battlefield

Pat Benatar 1984

“Conosco tipi che sarebbero brutti anche in Corea”
Enzo Biagi – Strettamente Personale

         Ho dovuto ricorrere ad un’ora di straordinario per lasciare sbollire l’ira che mi divorava e per essere sicuro di non trovarmela a casa al rientro. Non sono uno che cova sentimenti di rivalsa; e non sono mai stato nemmeno uno che si fermava a fare straordinari. In genere dopo qualche minuto sbollisco come una pentola a pressione alla quale è stato tolto il coperchio. Non riesco a rimanere arrabbiato a lungo, la trovo un’inutile perdita di tempo e di energie. Ma stavolta non riesco a farmela passare. L’impressione di essere stato preso per i fondelli alla grande mi si è radicata dentro, ed è per questo che ho cercato con ogni scusa di rimandare il ritorno a casa, sperando di non trovarla, sperando che mi lasciasse qualche giorno di tempo per ritornare quello di prima. E infatti non la trovo a singhiozzare in salotto o in bagno, non la trovo in cucina, non la trovo nemmeno discinta in camera come, forse, da vecchio satiro in cuor mio speravo; trovo solo un biglietto: forse hai ragione, forse no. Forse torno, forse no. Anzi, torno. Ma pensiamoci. Cos’è, l’oracolo di Delfi? Che cazzo vuol dire pensiamoci? Sembra quasi che la colpa sia interamente mia. Adesso devo stare qui ad aspettare che decida qualcosa? Qualsiasi cosa? Devo innescare i sensi di colpa per aver reagito? Devo aspettarla a braccia aperte? Con Umbe, proprio con il timido, trasparente Umbe, l’amico di tante giornate di studio, l’uomo del Mulino Bianco, il Missionario servile, La Statuina del Presepe? Col cazzo, quello è uno sciacallo a grana grossa. Ha aspettato una parvenza di carcassa per poter banchettare. Dovrei avere un’accetta in garage.

         Bah… Sono stanco e mi fa bene allontanarmi dalle donne per qualche giorno, mi fa bene ritornare in mezzo ai vecchi amici, in mezzo alle bottiglie di whisky, in mezzo ai locali fumosi, in mezzo a conigliette che cercano di concupirti.

         Mi guardo dal chiamarla, e lei pare voglia fare altrettanto, in un gioco di tensioni indefinite, che però sembra non dispiacere a nessuno dei due. Basta un giro di telefonate per avere il mondo ai propri piedi, almeno per qualche ora… Riesco a localizzare e a recuperare tre o quattro dannati – di quelli di grana grossa – del bar, precetto Lino e scopro con un sorriso di malcelata soddisfazione che il cellulare è una gran bella invenzione. Tutti quelli che non erano mai in casa (o che, se c’erano erano in bagno o occupati a fare chissà cosa) diventano immediatamente reperibili, a qualsiasi ora del giorno e della notte. Basta dunque con gli appostamenti al bar per vedere chi aveva parcheggiato la macchina, basta con le decine di tentativi a vuoto, basta con i messaggi in segreteria, basta con le attese degli orari canonici per riuscire a scovare questo o quell’altro. Un paio di bottoncini e la voce risponde quasi sempre, come per miracolo. Perché ho aspettato così tanto per adeguarmi ai tempi che corrono sempre più veloci di me? Se lei non chiama e io non mi faccio vivo significa che il mio week end è liberissimo, e può prendere direzioni inaspettate dopo aver consultato la rubrica del Motorola e lasciato correre il destino. Niente bar, stasera. No no no. Stasera scorribanda nei migliori locali del centro città. Non sarà Londra, Berlino o Amsterdam ma con un po’ di fantasia e con il nettare giusto ci si più divertire anche da queste parti. Il problema è che dopo cinque o sei osterie sembriamo un branco di maiali appena usciti da un incontro di Premier League, tipo West Ham – Middlesborough; la mia camicia è un insulto all’industria dell’abbigliamento, i miei freni inibitori si stanno lacerando e gli altri sembra non vedessero l’ora di gettarsi in una rentrée così trionfale. Mirko e Mauro hanno bucato un paio di gomme d’auto per puro divertimento, e poi svuotato qualche litro di liquido dalla media gradazione. Sembrano tutti, o meglio sembriamo tutti, tornati bambini davanti alla TV per Giochi Senza Frontiere. Servirebbero Gennaro Ulivieri e Guido Pancaldi a tenerci buoni per il Fil Rouge prima che noi si giochi il jolly.

         Ancora una e poi basta ci diciamo, giusto il bicchiere della staffa; prendiamo l’auto e andiamo a spararcelo nel bar più ganzo dell’intera città. Ma prima: patatine fritte al Mac Donald’s, che servono ad assorbire i liquidi nello stomaco e a far ruttare. I damerini, quelli mantenuti in prestigiose facoltà universitarie devono vedere che razza di abisso intercorre tra noi e loro. Quasi quanto tra il Quaalude e il Prozac. Sono parecchio su di giri, e il mio inguine lancia dei leggeri pizzicorini. Mi prude, e questo – se non è un segnale di sesso in avvicinamento – vuol dire solo una cosa: guai. Dovrei convincerli a girare i tacchi e tornare a casa; abbiamo sconfinato, siamo in un paese nemico e non è giusto sfidare troppo la sorte quando non si è invincibili. Dovrei farlo ma non mi va, piace anche a me questo sogno americano in technicolor dal sapore di ketchup e olio di colza. Via, dentro quel covo di vipperia, lasciando addirittura parcheggiata la macchina quasi davanti all’ingresso. Attraverso le porte come farebbe Liam Gallagher, senza degnare di un’occhiata nessuno mentre invece tutti ti sbirciano perché sei lo straniero puzzolente appena arrivato in città, e ondeggiando nella sua stessa maniera buzzurra. Il locale è strapieno, è il regno di tutti gli Andrea della regione, gli occhi lacrimano, non si riesce ad avvicinarsi al banco senza urtare decine di deficienti e di bicchieri; senza vedere seni con push up, chiappe che sfidano la gravità e gambe affusolate, senza avvertire profumi profondissimi e pelli lampadate, camicie bianche e completi doppiopetto. Sauna per ricchi. Talmente squallido che nemmeno l’homunculus vuole uscire a dare un’occhiata. Mi sento claustrofobico, vengo avvolto da un’ansia e da una rabbia ingiustificata.

         Eppure è strapieno di passere dal bel piumaggio in libera uscita e riusciamo anche, dopo alcune maleducate peripezie, a trovare un tavolo libero. Cinque bicchieri di Porto e un’occhiata in giro mi fanno venir voglia di non essere mai nato. Se ne accorge per primo Lino, con un ghigno di rivalsa veramente maligno. Non l’avevo mai visto sotto questo aspetto e mi fa paura pensare che abbia qualcosa di irrisolto nei miei confronti, mi scade parecchio pensare che abbia dei rancori verso di me, ma è solo un attimo; capisco subito che c’è qualcuno che non avrei mai dovuto vedere.

         “Il pubblico delle grandi occasioni, vecchio mio” ringhia il rasato con un filino di bava; stasera si è messo l’Harrington, sembra davvero un nazi skin. Il gruppo si ammutolisce, hanno capito tutti che sta per accadere qualcosa. Tutti, ma non io, che sto fissando il culo di una stupidissima commessa abbronzata, pensando quanto la sua intelligenza debba essere inversamente proporzionale alla sua troiaggine.

         “Voltati a guardare quei tavoli, svelto” continua con inaudita rabbia.

         Monroe e Umberto. Kornelia e il piccolo Renato Rascel della Pianura Padana. Due tavolini attigui e due coppie degne di un fumettone popolare. Com’era? Le coincidenze non esistono, sono solo dei piccoli tasselli nel grande mosaico della vita. Vorrei del gas nervino e del silicone per sigillare l’entrata. Forse per Lino tutto questo pareggia quel ‘tr…‘ che ancora aleggia nell’aria, forse gli altri stanno pregando affinché tutto scorra liscio, forse pregano perché invece avvenga un bel deflagrare di vetrate, forse io voglio finalmente dimostrare che ho le palle. O forse soltanto devo sfogarmi in qualche modo, devo sputare tutta la rabbia, l’attrito, devo pareggiare i conti, fare una mossa simbolica che suggelli questi due anni e mezzo di badilate sulle gengive.

         Kornelia e il suo ganzo si sono già alzati per pagare, probabilmente subodorando qualcosa in anteprima; io – non so come e perché – mi trovo a saltare come una molla prima che gli altri abbiano il tempo di fermarmi, passar loro davanti e sputare per terra, per poi fissarli impietosamente e impetuosamente negli occhi, soprattutto lei. Il Piccolo Fiammiferaio trema come una foglia mentre vedo con la coda dell’occhio le due merde di Mirko e Mauro che ridono a perdifiato, secondo me crede di essere arrivato alla resa dei conti, ma io svicolo senza manco cagarlo, quel pulcioso, fermandomi al tavolo di Monroe.

         Pugni chiusi sul tavolo, mano nervosa tra i capelli ormai intrisi di sudore e sguardo carico d’odio puro prima di sbottare, rosso in faccia come se stessi vomitando: “che bel quadretto familiare! Les amants d’un jour! Vorrei immortalare per sempre, magari con della calce viva, questo momento degno di un quadro di Monet. Potreste fare il paio con i due vigliacchi che se la sono data a gambe poco fa. Tu sei una gran zoccola…” le punto il dito a tre centimetri dal naso, e continuo “…bravissima a fare le sceneggiate napoletane e a raccontare fregnacce…e a te…” ora sto guardando lui come se volessi ammazzarlo “…prima o poi spezzo le gambe e ti metto a fare la statuina nel presepe. Non riuscite nemmeno a farmi schifo, con tutta questa puzza di soldi che emanate”. Umberto guarda sconvolto le guance di Monroe, quasi aspettasse un segno divino. Scodinzola, non sa se deve fare il paladino, comportarsi da vero signore, ignorandomi completamente o tirarmi un dritto sul naso. È lei che smuove le acque rivolgendosi al Cesare Ragazzi poco più che adolescente: “andiamo via, è completamente ubriaco, è un poveraccio. Lascialo stare, non si picchiano i vecchi”.

         Lancia un’occhiata al laser che per un attimo mi impaurisce, ma mi riprendo subito. No cazzo! Non andate via così. “Ehi, lunghicapelli augh! Vieni qui. Dove hai i coglioni? Ho dissotterrato l’ascia di guerra, ti prego…Mettimi le mani addosso così ho l’alibi per deflagrarti! Ti prego, toccami, ti prego! Lo so che non hai nessuna colpa, ma devo farlo fratello, sfiorami”. Il poveruomo non fa una piega, è un vero signore e mi dispiace trattarlo così davanti ad almeno un centinaio di persone che stanno cominciando a capire cosa succede.

         Sento Lino avvicinarsi: “che cazzo fai? Vieni via, dai…”, sento delle prese sulle mie braccia. Mi divincolo con rabbia. Le ignoro. Proviamo con lei, alzando la voce quel tantino che basta: “Mata Hari, allora…Chi scopa meglio tra i due? Ce lo puoi dire ora, dopo aver finalmente testato entrambi gli articoli? O devi riprovare Andrea, magari questa volta da sobria?”. Sento una sberla sulla guancia sinistra da Monroe, una spinta dall’anoressico finalmente accesosi e delle braccia che mi trattengono da dietro, non tanto da impedirmi di sferrare un calcio disumano, tipo Roberto Carlos, al tavolo dei due facendo volare bicchieri, portacenere e combinando un casino infernale. Di sinistro, che è il mio piede migliore. Il locale si blocca, vedo un bicchiere pieno di liquido amaranto volare verso le vetrate accompagnato da uno stuzzicadenti con la bandiera dell’Olanda. Il miglior fermo immagine possibile, mi passa per la testa che probabilmente non potrò mai più metter piede qui dentro e che, da domani, sarò l’argomento di conversazione di tutte queste teste di cazzo, che al Joy per un po’ di settimane non si parlerà d’altro e che verrò additato come il pazzo alcolizzato che dà segni di squilibrio. Grandioso.

         Durano un attimo questi pensieri, vengono subito sostituiti da sensazioni ben più tangibili. Sento che riesco ad afferrare i capelli dell’anoressico, sento che il suo occhio cozza sulle mie nocche, sento anche le sue nocche sullo stomaco, sento le unghie di Monroe graffiarmi braccia e collo, sento che cado, sento che delle braccia paurose mi afferrano per la cassa toracica e stringono stringono STRINGONO STRINGONO STRINGONO, sento che devo respirare, sento che mi divincolo ringhiando senza riuscire a muovermi di un centimetro, sento le prese e i calci dei buttafuori che mi fanno letteralmente volare dal locale, sento le voci dei miei amici che cercano di imbastire una storia ragionevole per scagionarmi, sento le voci di Kornelia e di Lino, sento Monroe che urla ‘stronzo’ e che fa parlare le sue lacrime calde come il vento dell’estate e l’anoressico che le dice ‘andiamo via, lascialo stare’, sento fitte di dolore alle costole, sento che non riesco a respirare, sento risolini aleggiare per la via, sento che vomito, sento che sono un verme, sento che mi sento abbastanza soddisfatto, sento che sarà un’impresa andare al lavoro domattina.

         Decine di occhi che scrutano tra la fioca luce, tutti che danno la loro personale interpretazione dei fatti; l’esterno del locale, amici di Monroe, Miss Ender e il nerdoso con gli occhi sbarrati. Ringraziate il signore voi due, avreste potuto essere al posto di Monroe e Umberto, riesco solo a puntare un indice nella loro direzione. Poche braccia che mi sorreggono. Mi vedo l’ex troia di Lino con un ghigno soddisfatto appena lo verrà a sapere. E in un capoluogo di provincia così ottuso le chiacchiere corrono in tempo reale. Poi sento l’odore di nicotina della macchina, un silenzio di tomba, le voci delle infermiere e l’odore del pronto soccorso, che a me ricorda sempre quello della Fanta. Una costola incrinata, un labbro tumefatto, un taglio allo zigomo e un sorriso d’orgoglio che non vuole andarsene. Mi fa male il culo, quei buttafuori devono aver calciato duro. Mi sento un eroe di ritorno dalle crociate. Un pluridecorato di guerra. È la prima volta che faccio una cosa del genere, ed è stata un’impresa memorabile. Fa male, ma sono un mito.

         Medagliemedagliemedagliemedaglie.

         “Cos’è successo qui?” Il grande Medico Sherlock Holmes che si atteggia a buon padre di famiglia; ha una faccia da cazzo come poche questo dottore, il classico medico che si crede superiore al resto dell’umanità, quello che tratta i pazienti come dovessero essergli eternamente grati perché ha posato gli occhi sulle loro magagne. Un deficiente, lui e gli occhialetti chiesastici che si ritrova. È come quei generali che han più ferite che battaglie. Lo vedo subito che è uno di quelli che palpa le giovani pazienti mentre sono anestetizzate in sala operatoria, il porco.

         “Ho cercato di far saltare in aria un locale per non vedere più la mia ex moglie, la mia attuale compagna e i loro nuovi concubini” sono calmissimo, ma questo mi sta sui coglioni non poco. Ormai ho preso il via, potrei buttare in aria anche il pronto soccorso già che ci sono.

         “Lei è completamente ubriaco, se ne rende conto?” mi guarda davvero schifato.

         “Non completamente, diciamo al sessanta per cento, e questo è niente, non mi ha mai visto quando bevo sul serio. In ogni caso, mica guidavo, che le frega?” cerco anch’io di guardarlo schifato, ma non posso fare tante smorfie, ho il labbro che ulula alla luna. Sarà invidia, la sua, perché ho parlato di donne al plurale, mentre lui avrà una megera una, che gli succhia lo stipendio – e solo quello – ogni mese. Va a trans, questo. Sicuro. Comincia a rivolgersi a qualche suo collaboratore che puzza di disinfettante “È venuto per caso qualcuno per sporgere denuncia?” che cazzo vuole? Perché queste paranoie? Dio, non vorranno mica denunciarmi quando ho completamente ragione? Sfido qualunque giudice cum grano salis a giudicarmi colpevole. Suvvia, signor giudice…Non mi dirà mica che lei non l’ha mai fatto! Beh, forse no…Forse lei era il tipo che mandava dei sicari per non sporcarsi le mani, tipo questo medico bastardo qui davanti. Patteggiamo allora: “Non ho la minima idea, provi a chiedere ai miei amici”.

         Un filino di paura. Li sento borbottare per qualche minuto, poi avverto del bruciore al labbro, un dolore atroce allo zigomo e un ragazzetto senza un filo di barba che mi prende in mano il pollice della mano sinistra e comincia a tastarmelo mentre urlo come uno che stia per essere sgozzato. Rotto, questa la sua diagnosi. Se quel deficiente me lo chiedeva direttamente, senza torcerlo, glielo dicevo gratis e senza portare al limite le corde vocali. Cinque o dieci minuti di armeggiamenti sul mio corpo. Mi viene da piangere, mi sento inutile. Sono un coglione.

         “Firmi. Può andare. E si vergogni.” Scuote la testa mentre lo sento borbottare la parola idiota. Vergognarmi? Io? Due punti, tanto bruciore e un po’ di medicazioni assortite. Venti giorni di prognosi. Devo stare a casa. Bel guaio, stavolta mi licenziano….Come non bastasse, durante il viaggio di ritorno devo sorbirmi le invettive dei quattro, incazzati neri con il sottoscritto ‘che non ti sei mai comportato così, proprio tu, la persona più mite e pacifica del mondo; che cazzo di figura ci hai fatto fare? Che cosa diremo in giro? Metti che vogliano denunciarti? Bla bla bla..’. “Dite la verità, dite quel cazzo che volete. Ma, almeno una volta nella vita dovevo fare una cosa simile, ho scelto di farlo ora. E adesso, per favore, portatemi a casa. E, vi prego, non rompetemi più i coglioni con questa storia. Ok? Tanto so che vi siete divertiti da pazzi”. E chiudo discussione e nottata.

Vorrei sapere cosa ha detto Miss Ender a Lino, e se Monroe ha detto qualcosa a qualcuno di loro. Ci sarà modo di riparlarne. Però, merda! Sembra che tutte le mie storie sentimentali siano prodotte da Steve Albini; niente effetti (affetti), passo dagli ampli al mixer, un po’ di distorsione, feedback e saturazione. Chi mi farà da testimone al matrimonio? Glenn Branca? James White? I Throbbing Gristle? Dio, che casino. E adesso?

         Ho freddo, un paio di coperte risolveranno il problema. Mi fanno male gli zigomi e lo sterno. Qualcuno mi ha preparato qualcosa di bollente, grazie. Chissà chi si scopava Cerys dei Catatonia. Ho tanto tempo per pensare. Ultimamente mi sono messo a studiare le coppie. Quelle che si vedono nei ristoranti, con le auto lussuose e con una lei che indossa sempre calze eroticissime, nere e grosse con rombi, scarpe lucidissime, gonne a mezza coscia (né troppo corte, né troppo lunghe), capelli ramati e trucco millimetrico, ginocchia morbidissime e unghie laccate. Fisicamente arrapantissime, iperdesiderabili allo spasimo. Poi guardi il suo lui e ti vengono i conati di vomito: pochi capelli e tutti quei pochi tirati indietro con il gel, camicia dura come il marmo e quasi sempre di colore cobalto, cardigan, orologio di qualche etto, chiavi dell’Audi in vista e braccialetti a go-go. Cravatta con il nodo grosso. Coppie che passano le domeniche al cinema, le pizzerie cinquestelle, che entrano ogni tanto in libreria (quando sono in compagnia di amici), che frequentano le concessionarie, che vanno alla funzione di Natale, la settimana bianca, la station wagon, il lettore Cd in auto con i compact masterizzati, Mina e Celentano, il rock inglese fino ai Dire Straits. Belle fighe. Ma tutto quel ben di Dio sprecato. Io non voglio diventare una coppia così, io voglio riuscire a spaziare, a oscillare dalle Volvo e i ristoranti di lusso alle nottate rock piene di nicotina, dalle felpe slabbrate ai vestiti eleganti. Io li ho, i capelli. Io non ero una coppia così. Io. Noi. Anche lei. Io non porto le mie donne al cinema; le porto a vedere i Sonic Youth e a far conoscere loro Thurston Moore, mentre al massimo gli altri uomini le fanno conoscere le cassiere dei supermercati o il commesso del negozio di calzature dove le bellocce stanno comprando un paio di scarpe con il tacco da erezione istantanea. Io le porto ai festival rock, tra il fango e il sudore, le accompagno per librerie e negozi di abbigliamento, tra record shops e bettole, tra fritture al cartoccio e cultura. Forse le scoperò poco, ma le elettrizzerò molto. Eppure adesso qualche volta un po’ le invidio le coppie. Anche quelle snob. Le invidio quasi tutte, mi aggrappo alla maggior parte delle tipologie, eccetto quelle scialbe, avare su tutto e di tutto, dominate dalla chiesa e dalla cattiveria che esce dagli angoli della bocca, seguaci dell’ACR (non gli A Certain Ratio) con le gonne e le camicie a quadri. E gli occhiali spessi. Aride. Ho il vomito quando le vedo, ma tiro un sospiro di sollievo. Non sono così, mi dico. Mai lo sarò. Mai avrò il naso a punta e la bocca fine. Che gente! Mi fanno ingrossare i linfonodi a palla.

         Coppia è il doppio di single? Comincio a volare su questi inutili fraseggi della vita, comincio a suddividere l’umanità, a compararmi con il pianeta…E ti ricordi, cara crudelissima Kornelia, le feste dove si finiva tutti con l’ingollare barili di vodka con succo d’arancia; a veder girare l’erba manco fossimo al Maracanà; a trovare qualcuno che voleva a tutti i costi offrirti della cocaina per abusare sessualmente di te o fare uno scambio promiscuo di coppia? Feste nelle quali io e te avevamo una tristezza infinita? O le feste dove non ci parlavamo nemmeno un attimo? Ti ricordi che i dischi che piacevano a me quasi mai piacevano anche a te e secondo me lo facevamo entrambi apposta? Ti ricordi la tua indole sixties? La tua gonna optical a cerchi bianchi e neri? Ti ricordi la mia indole triste e oscura? La mia giacca nera con le maniche bianche? Ti ricordi? Eh, dimmi, lo ricordi questo? E ti ricordi come alcuni feticci ci abbiano accompagnato nel corso degli anni? I Diari di Andy Warhol, Suedehead di Morrissey, la molla che si vede nel video dei Lotus Eaters, le magliette fatte da noi, i nostri pranzi, le palline cinesi antistress, i vestiti che ci scambiavamo, la vecchia Ford con l’autoradio storica del 1975 tutta manopole e fruscii, i trucchi lasciati sopra il mio letto, i sacchetti di patatine divorati prima di cena? Te le ricordi tutte queste cose? Io credo proprio di sì. Era il nostro Disco 2000. Le feste dove speravi sempre succedesse chissà cosa, e invece, già con l’arrivo dei primi amici, ti facevi prendere da una malinconia assoluta. Ci si stancava subito ma, quando la gente cominciava a tornare a casa, ci veniva voglia di prolungare all’infinito quegli incontri di merda. Giusto per non cadere nel down del dopo party. Ed eravamo quasi sempre gli ultimi ad abbandonare il campo. Perché quando finisce una festa lo squallore è incommensurabile. E sono strane le feste…Festeggi cosa, che quasi tutte le scuse per organizzare party nascondono una solitudine abissale? Dagli Art Of Parties a All Tomorrow’s Parties passando per The Party’s Over.

         20 giorni di prognosi, mi fa male anche solo alzare il braccio della puntina dello stereo; sono ragionevolmente avvolto da garze e cerotti e il culo mi fa un male cane. E un po’ mi vergogno a farmi vedere al bar o solo al panificio ridotto così. Ci sono pochissime coppie decenti e decorose in giro; in genere si vedono occhi bassi, vestiti costosi e bocche cucite. Non so se sono diventato iper intollerante io o se effettivamente la pochezza che aleggia nei rapporti stia crescendo in maniera esponenziale. Volendo guardare il pelo nell’uovo anche io e Monroe non siamo proprio adatti l’uno all’altra al 100%. Però superiamo di gran lunga il cinquanta, e di questi tempi è già qualcosa. Anche Elena è sparita, da quando ha il suo bulletto non la si vede più in giro. Credo che lui le impedisca di vederci, roso chissà da quale improbabile gelosia. O forse è solo che gli stiamo sul cazzo. Altra coppia destinata a splittare entro breve tempo. Poche settimane e già cominciano con i dieci comandamenti: non fare questo, non voglio che tu faccia quello… Che tristezza. Ho comperato A Different Corner di George Michael. 45 giri, buco grande, di quelli di una volta. Credo che l’ascolterò entro breve, se riesco a muovere il braccio fino all’ultimo scaffale della libreria senza urlare dal dolore. Mi piacerebbe risentire Elena, l’ultima volta l’ho vista di sfuggita al bar, mentre prendeva un caffè di corsa, in attesa che il suo belloccio passasse per portarla al lavoro. Due parole di prammatica, il solito: ci sentiamo presto, appena ho un minuto libero, perché sai…Sono impegnatissima…Tra il lavoro e la palestra arrivo a casa sfinita; due baci sulle guance e viaaa. Io resisto. Ne ho visti, ne vedo e ne vedrò passare ancora decine di persone così. C’ero e non c’eri, ci sono e ci sei, ci sarò e non ci sarai. Però mi dispiace.

         Ho sempre avuto un minuto libero per gli amici, una sera in pizzeria, un aperitivo al bar, una telefonata, un sabato in discoteca. Ho sempre cercato di uniformare il mio tempo in funzione di tutti i miei impegni. E per dirla tutta il merito era anche della mia donna, comprensiva e tollerante verso il mio schizofrenico vagare. Adesso sono giusto un indirizzo per le cartoline di Natale e gli auguri di compleanno per qualcuno. Per qualcun’altro non sono più nemmeno questo. Per qualcuno sono solo il 118 dell’ultimo minuto, la Croce Rossa da chiamare con faccia tosta quando si è disperati, l’otto per mille da devolvermi una volta l’anno; l’uomo da chiamare quando si hanno problemi seri, non importa se sono cinque anni che non ci si vede. L’Abate Faria del cellulare. Fortunatamente Lino è tornato il solito arrogante figlio di puttana pedofilo di sempre.    

 

Un consiglio:

http://ilmiolibro.kataweb.it/libro/narrativa/42120/pimlico/

Tre Parole:

“Le tigri dell’ira sono più sagge dei cavalli della sapienza” (William Blake)
Molti di quelli che vivono meritano la morte e molti di quelli che muoiono meritano la vita. Tu sei in grado di valutare, Frodo?” (Il Signore degli Anelli)
“Ho imparato che la gente si dimentica quello che hai detto, la gente si dimentica quello che hai fatto, ma la gente non potrà mai dimenticare come li hai fatti sentire” (Maya Angelou)
Dieci Suoni:

Modern English, Ricochet Days 1984
TV Personalities, Closer To God 1992
Felt, Ignite The Seven Cannons 1985
The Danse Society, Heaven Is Waiting 1983
Erasure, Chorus 1991
Died Pretty, Lost 1988
Laurie Anderson, Big Science 1982
McCarthy, I Am A Wallet 1989
Joy Division, Heart And Soul 1997
Kong, Phlegm 1992

 

Autore: Michele Benetello

Ex un po’ di tutto, vivo da participio passato in mezzo a un gruppo funzionale costituito da due atomi di carbonio legati tra loro con un doppio legame, e tre atomi di idrogeno derivato dall’etene (etilene) per perdita di un idrogeno. Si chiama vinile. Mi piacciono le conchiglie, i cani, l’inverno e Cindy Crawford. Se rinasco vorrei essere Johnny Dean nell’esatto istante in cui indossa la giacca da ussaro a Top of The Pops. Per ora mi accontento.

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