Pimlico – Capitolo 23

My Way
Sid Vicious 1978

“Trovo che la mia migliore virtù ha in sé qualche sospetto di vizio”

Michel Eyquem de Montaigne – Saggi

         Fumo troppo. L’ho scoperto da poco. Un’illuminazione di un mattino. E non mi piace nemmeno fumare, la prova è che ogni volta che mi accendo una sigaretta ho bisogno di una caramella che mi tolga quel gusto bituminoso dalla bocca. Le sigarette mi fanno da clessidra personale. Le uso per sapere quante boccate mancano all’intervallo di un match calcistico, o per impedirmi di tornare a casa troppo presto la sera (“ancora una” mi dico). Mi calcolo il tempo usando la nicotina come parametro.

         Una sigaretta – il piacere perfetto, come acutamente osservava Oscar Wilde – mi accorcia la vita ma paradossalmente mi razionalizza il tempo in maniera perfetta. So con precisione che una mattinata di lavoro dura 7 Benson & Hedges pacchetto blu, una pausa pranzo ne trascina via 4 ed una serata infrasettimanale una dozzina. Le cose cambiano nei week end, dove posso frantumare i record dell’ora e dilapidarmi un pacchetto di Gauloises Legères (com’è successo la notte che incontrai Monroe). Una sigaretta sono otto centimetri e mezzo lunghi cinque o sei minuti. Dipende dalla voglia. Una sigaretta è perfetta se accompagnata da un disco di Bacharach, di Henry Mancini, una sigla di James Bond, un Martini. Oppure un caffè, una donna, delle lenzuola, una vodka. Una sigaretta non si appoggia a controculture giovanili, a ceti sociali (alla faccia di Hebdige). Le tribù adolescenziali hanno le loro droghe private; ma il tabacco accomuna tutti: dai patiti di jazz ai neo mods passando per i punks e i romo. Il tabacco è democratico, snob ed anarcoide. Una contraddizione in termini. Tutto il contrario di chi se lo aspira. Una sigaretta mi dura quanto Parklife dei Blur in versione singolo (ovvero sui tre minuti), ma posso dilatarla fino a Champagne Supernova degli Oasis (quindi oltre i sette) perché tante volte non serve nemmeno fumarla, basta averla tra le mani. Rarissimamente, quando sei mentalmente disposto a fumare, la nicotina acquista un delicato gusto di cioccolato fondente.

         Adesso me ne accendo una. Venerdì pomeriggio, settimana lavorativa conclusa. Cominciano le consuete 48 ore per la vita, il mio Telethon privato… Mi sdraio sulla poltrona dello studio per scaricare i files frustranti dei cinque giorni lavorativi e poi faccio la mia consueta scorpacciata di meditazione. Magari stasera non esco e mi dedico alle sigarette e ai Tarwater, visto che la mia quasi-relazione con Monroe è una cosa che si è sviluppata solo tra le pause ed in levare, come il reggae. Se ci penso mi accorgo che ci siamo visti poco e frequentati ancor meno rispetto alle medie delle coppie; quasi un sintomo di come fossimo spacciati in partenza. E quindi meglio i Tarwater, in mancanza d’altro. Ogni tanto mi faccio una serata solitaria disteso sul parquet ad ascoltare cose oblique quali Scala, Trans Am, 8 Frozen Modules, To Rococo Rot, Laika, Schneider TM, Mouse e compagnia bella; lo faccio quando non sono occupato a prendere per il culo le redazioni delle emittenti radiofoniche private. E’ una cosa che si avvicina di molto all’Lsd, dopo qualche decina di minuti pare di cadere in una specie di trance sconnessa, indotta da quei suoni. Forse non dovrei distendermi sul parquet, magari è la posizione orizzontale a sfuocare l’udito impedendo di captare appieno quel semplice fenomeno di compressione e rarefazione dell’aria chiamato musica. Capisco possa conciliare le concatenazioni mentali ed indurre rilassatezza ma non credo ci sia un solo pazzo sulla faccia della terra che preferisca i Tarwater a The Kids Are Alright degli Who. Questa è droga incisa su dischetti circolari d’alluminio, droga che stasera riesce ad inchiodarmi a casa su di un parquet non abbastanza morbido e caldo per la mia disastrata colonna vertebrale.

         Sono già le sette. Non mi sento per niente bene. Un pochino di nausea. Restringimento delle pareti dello stomaco. Tipocome. Bruttissimo star male da solo; penso sempre che mi ammazzerei se dovessi morire in solitudine. Lo stesso per un viaggio che ho in programma dalla seconda media; se non vado a New York prima di morire mi uccido. Le avvisaglie delle fitte brucianti si fanno sentire giusto mentre mi alzo dalla poltrona. Dio. Dio. Diocazzo lo sapevo. Lo so cos’è: quest’anno non è ancora venuta a farmi visita, mi sembra leggermente in ritardo, di solito colpisce a cavallo del mio compleanno, in prossimità di un week end. Dapprima sono pizzicorini diffusi giusto sopra la natica. Poi parte una sinfonia di dolore con archi e ottoni salmodianti prima che arrivi La Cavalleria Rusticana del dolore; ho imparato a convivere con questi spasmi atroci e so che con queste premesse la mia annuale colica renale è in agguato. Solo allora, quando ho la certezza che il supplizio mi ha abbracciato mi faccio prendere dal panico ed innesco una spirale negativa di dolore e paura dello stesso. Provo dolore e ho il terrore che possa aumentare, in questo modo mi concentro e provo ancora più dolore.

         Mai che si trovi qualcuno disposto a farti una puntura sul culo quando hai bisogno. Mentre è pieno di gente che sfida il gelo anche la vigilia di Natale per portarti a casa una pizza che ha la consistenza delle Pirelli da strada su di un motorino del secolo scorso. Che mondo di merda. Quando, a causa delle fitte, comincio a vomitare è giunta l’ora di fiondarsi in ospedale. Buscopan, Toradol (Tora! Tora! Toradol!), visioni strane indotte dalla morfina contenuta nelle fialette, ecografie, addome in bianco, siringhe, tela cerata color verde, vene allo spasimo, sudori. Odio tutto questo, pare di essere tornato in ufficio. In più mi fa anche sentire malato. Sono già in ospedale quando nel cervello mi risuonano strane parole ritmate come in un codice Morse.

         Più precisamente una montagna d’infermiere mi sta scorrazzando per angusti corridoi sopra una sedia a ruote. Credo d’aver chiamato in aiuto Giulio. O il mio fratellino stronzo e dalla vita irreprensibile. Non lo so, so che ho sporcato di vomito almeno tre asciugamani. Se questo cataclisma urologico è una conseguenza dei Tarwater dovrò quantomeno rivedere i miei ascolti. Non mi preoccupo più di tanto; so che con una flebo in un paio d’ore mi rimandano a casa. Solo non vorrei farmi vedere così sbattuto da tutte queste facce che girano qui dentro, e penso già al dopo colica, ovvero ai giorni di indolenzimento e rincoglionimento dovuti al Toradol. Lettino. Ambulatorio di urologia. Ago. Vena. I dolori hanno imboccato la chicane e se ne stanno andando. Urologia: Che parola del cazzo. Sono proprio sotto la sporchissima finestra di un ambulatorio del pronto soccorso e posso nitidamente vedere che PIOVE.

         Mi piace quando piove, quando l’acqua lecca il selciato e solletica il cemento arido. Provo una pacatezza d’animo che non ha eguali. Preferisco le gocce grosse, quelle che impattano con fragore. Preferisco il rumore della pioggia alla pioggia. La pioggia fine mi lascia semi-indifferente. Sorseggiare un caffè caldo, un pomeriggio d’autunno, incollato alla finestra a guardare quelle grosse lacrime che sbattono su tutto il campo della tua visuale. Ecco, quella è una cosa che si avvicina alla felicità. Quanto costa il tutto? Me lo impacchetti, grazie, ho la macchina qui fuori non si preoccupi. Suvvia, mandatemi a casa che mi aspettano al bar.

         Uh-Uh…Ho il pennarello indelebile qui con me, ho sempre un sacco di cianfrusaglie necessarie dentro alla borsa a tracolla; perchè non scrivere sotto il lettino un bel I Was Here? Dev’essere difficoltoso con quest’ago infilato (fist fucking nel fist?) e quella damigiana che sbava roba chimica così bbbbuuuuuoooonaaa da altezze stratosferiche, ma ci voglio provare. E lo faccio con discrezione sotto il lettino perché scrivere sui muri non è da persona educata. Sia come sia mi sembra di aver visto passare per il cervello la parola felicità e un nutrito numero di parole che le si possono avvicinare: contentezza, gioia, spensieratezza, letizia, beatitudine, esultanza, giubilo, appagamento, estasi, visibilio; mi sembra alquanto improbabile ma voglio fidarmi del mio terzo occhio che le ha viste corrermi incontro vestite ognuna di un colore diverso.

         Dov’è il medico? La felicità è brutta, e detto da uno disteso sopra un lettino d’ospedale con un ago infilato nel braccio e la camicia Ben Sherman chiazzata di vomito è abbastanza sintomatico. La felicità è brutta soltanto perché è difficilmente raggiungibile. Perché è come una cometa. Ti sfiora si e no una decina di volte nell’arco di una vita; e nemmeno a intervalli regolari. E se rimani lì, col capo in aria, ad attenderla, diventa una paranoia. Sei sempre li a scrutare se è in arrivo… E magari ti si presenta come un attimo, una domenica sera quando torni a casa dopo una cena con amici e sai che l’indomani non lavori, e allora ti chiudi in camera, ti fiondi a letto e cominci a leggerti un bel libro, la temperatura esterna si abbassa sensibilmente e le prime gocce di pioggia, quelle grosse, colpiscono le tapparelle. Oppure la trovi quando passeggi da solo, sopra un cumulo di neve fresca per le strade del tuo paese. O quando il sabato sera, dopo una doccia bollente e profumata, ti schiaffi al tuo bar e trovi tutti i tuoi amici allegri ed ansiosi di andare a ballare. Ecco, quando sali in macchina per recarti al tuo locale preferito durante il week end… Bene, quello è un nanosecondo di felicità. Come potete vedere, arriva quando non ci sono donne nei paraggi.

Signore, salvami dalla felicità, ma non subito.

         Niente, sono ancora qui, si sono dimenticati di me. Ha fatto capolino solo la montagna d’infermiere – secondo me è pure gay, li vedo subito i gay, io – per avvisarmi che bisogna aspettare il medico che firmi il verbale per dimettermi, facile che io lo conosca anche, quel medico, magari gli ho firmato la bolla d’acquisto di un bel blocco di psicofarmaci. Non potevamo fare una constatazione amichevole ed andare ognuno per la propria strada? Adesso devo rimanere qui almeno un’altra ora a fare ‘sto cazzo di auto analisi. Rieccolo l’infermiere gay.

         “Su tesoro, devi fare un esame”

         Intanto: tesoro non è una cosa bellissima da dirmi, in queste condizioni; poi: non vorranno mica infilarmi le sonde su per il cazzo? Terzo: sento che questa flebo di Toradol comincia a fare effetto, mi sto espandendo per la stanza e sono molle molle molle molle come Mina nel 1981. Mi pare anche di parlare a 33 giri.

         “Cheee esaaaaameeee?” ehi, ho la bocca di chewing gum, la posso tirare in tutte le direzioni! Fico.

         “Urografia, cominci ad avere troppo spesso queste coliche a giudicare dalla tua cartella clinica”.

         Urografia…Che fanno, vedono come scrivo pisciando usando il pisello come penna stilografica? Oppure leggono la mia piscia come qualcuno fa con i fondi del caffè?

         “Mmmma mi dimetteeeeete, dooooopoooo?”

         “In un paio d’ore sei fuori, ora stai tranquillo”

         “Si puuuò far sessooooo dopo una colicaaaaa?” quanto ci metto a dirlo? Un’intero solstizio? Di sicuro di più di quanto ci metto a farlo.

         “Hai lasciato la tua bella a metà di un poderoso orgasmo, caro il mio torello? Su, buono ora”.

         “Nooo, era cooooosì…Per sapeeeere…Non si saaaaa maaaai…”.

         Non si sa mai, è che sento una specie di pre erezione salirmi dalla spina dorsale, il che è abbastanza difficile, considerato che il Toradol spegne qualsivoglia stimolo fisico e amplifica quelli mentali. Che umorismo, mi verrebbe voglia di dirti “sono gay” giusto per vedere la tua reazione, sfigato in camice bianco. Magari mi porti in bagno e cominci a lavorarmelo; ho sentito spesso dipingere gli ospedali come postriboli nei quali durante la notte succedono delle orge da far invidia a Tigellino, non faccio fatica a comprenderlo visto che conosco benissimo l’ipersessualità dei medici. In ogni caso, andiamo a pisciare su questi bersagli, saltellando come le stoviglie nel film Fantasia.

         Mentre sono attaccato a questa macchina che ansima, rutta e sbuffa ho tempo per volare via con la mente, che è anche un ottimo modo per passarlo velocemente. Mi dicono sempre che sono monotematico, però io ribatto che anche chi mi dice questo è monotematico quando me lo dice ogni due giorni; mi accusano di parlare solo ed esclusivamente di musica.

         Vero un urologia. Posso affrontare qualsiasi argomento di nessuna importanza: dalla vita di Truman Capote al cibo cinese, dai prezzi delle compagnie aeree alla nuova collezione autunno-inverno della Sisley, dall’orgasmo clitorideo ai rituali Maya, dai calendari Pirelli alle distanze tra le capitali europee. Però preferisco parlare di rock and roll dal 1977 in poi; e quindi lo faccio sovente. Mi piace parlare di vecchi quarantacinque giri, di copertine di dischi, di studi di registrazione. Mi piace farlo con altri vecchi orsi paranoici come me. Altri monotematici. Ce ne sono pochissimi li fuori. Non diamo fastidio a nessuno e ci lasciamo andare soltanto tra di noi. Carpirci la fiducia è difficilissimo, volete farmene una colpa? Affrontate un altro discorso, io mi aggrego. Oppure lasciatemi in pace. Io ascolto.

         Dov’è questo figlio di puttana di medico pornomane? Ho finito di pisciare in quel macchinario infernale da almeno un quarto d’ora e non ho la minima idea di dove possa essersi imboscato, in quale angusto corridoio nasconda le sue stanche membra; io mi sono rotto i coglioni di stare qui dentro, sto tremando dal freddo, la mia mente si espande in un trip psichedelico e se va avanti così so che finirò con il pensare a Monroe. L’ho vista di sfuggita qualche sera, quando – emigrando dal bar o dal Joy – cercavo rifugio e sollievo in qualche posto mondano a pochi chilometri dalla mia sicurezza. Posti di merda perlopiù, frequentati da gente che conta o crede di contare, posti che io ho paura di frequentare per il timore di imbattermi nel nerdoso e Miss Ender. O in Monroe con qualcuno. Epperò ogni tanto la vedo, splendente come sempre. Con le sue sigarette in mano e con un taglio di capelli sempre uguale seppure sempre diverso. La vedo, la vedo sempre. La vedo più spesso di quanto voglia ricordare. Anche ora, è qui stampata sui muri, rosa e nera che palpita con gli occhi di civetta. Non saluto, altrimenti svolazza via. Altra fitta, ma stanno scemando di intensità, come le scosse di assestamento di un terremoto. Sento i Nymphs cantare Imitating Angels e vedo colori che esplodono, vorrei una boccetta di questa flebo da bere tutta d’un sorso. E’ bellissimo qui, si sta bene, e secondo me hanno sbagliato il dosaggio perché le altre volte non vedevo tutti questi luna park mentali e non sentivo nel palato questo gusto come di menta piperita e comete. L’avevano detto che Gesù esiste. Dio no, ma Gesù sì. Eccolo ai piedi del letto che sfoglia l’Europeo, avrei giusto un paio di domande fresche fresche, se solo alzasse la testa da quella pubblicità. E’ giusto accontentarsi mio Signore? Oppure è meglio essere infelici perchè non ci si accontenta? Pienamente soddisfatti a sprazzi? Piagnucolosi sovente? Vengo da un altro pianeta: il Toradol. Anfetamine, pizza e quel sublime ago che prima affondava nel mio braccio sotto stretto controllo medico. Mi assolve da tutti i miei peccati fino ai prossimi? Grazie. Ne ero certo. Il mio embrione ha vagato – come una spora estiva in balia dei subwoofer techno – per decine di galassie prima di depositarsi, stanco, sulla superficie di MammaGaia. Una spora in mezzo a un dancefloor sudato e felice che si agita sulle note e sul ritmo mentre fuori impazza… Lager, lager, lager, lager… Mega mega white thing… mixata con l’ennesimo remix in chiave electro di How Does It Feels… Lo lascio sfogliare l’Europeo, non vorrei si risentisse che poi ci fa un casino come l’ultima volta. Secondo me quell’infermiere rincoglionito si è sbagliato, questo non è Toradol, questa è Ecstasy pura. Ho ancora l’homunculus appiccicato dentro al macchinario, forse dovrei rimetterlo nelle mutande, ma non so se stiano ancora facendo analisi. Datemi una bottiglietta d’acqua. Gesù ama i bassi spaccabudella, ne sono sicuro. Gesù ama i bassi, Gesù ama il rumore bianco e il funk nero. Gesù balla il dub e Bill Laswell, gli Orbital e Squarepusher. Gli piace vedere sfrecciare le monoposto in qualche pista assolata, infuocata. Il naso torrido. Gesù era sempre dentro al salottino privato dello Studio 54 durante i polverosi anni settanta. Lo potevi trovare seduto tra Andy Warhol e Liza Minnelli, tra Bianca Jagger e Donna Summer. Era lì, con la sua banconota arrotolata, con il Martini sparpagliato sul tavolo, le dita impiastricciate, smilzo, con tracce bianche nei baffi, mentre Nureyev gli volteggiava attorno. Un paradisiaco Toni Manero. Occhi vitrei. Neve. Catene al naso. Le prime volte non lo facevano entrare, a causa di quei capelli, fortunatamente all’epoca conosceva tutti, e non aveva problemi a essere inserito nelle guest list dei locali. Che culo… Poi gli anni ottanta li ha passati in tranquillità, nessuno se l’è più cagato. A parte i Sonic Youth. Gesù oggi suonerebbe il basso con gli LCD Soundsystem… Magari sarebbe Fatboy Slim. O Courtney Love, volessimo dar retta ad Albino Luciani. Gesù girerebbe con una Roland 303 sotto il braccio. Lavorerebbe alla Warp. O alla Skint. Andrebbe alle feste con Jon Spencer e ciò che resta di Aphex Twin. Boom. Depositato incolume. Pagine di quotidiani e prime tivù. Incolume, solo. Con gli occhi spalancati sui fili d’erba catramosi, sulle ortiche rugginose, discariche e Hôtel Ritz, sui copertoni accatastati lasciati marcire accanto alle traversine della ferrovia. Giornali trasportati dal vento e cruscotti in radica. Polvere e moquette. Caduto, di schiena. Sempre rivolto al cielo, in attesa di un altro embrione shakerato giù. Raggio di luce, sento Madonna. Colpo di tosse. Niente, almeno nel mio raggio visivo. Forse in Tasmania, o nella Terra del Fuoco. Chissà a Sheffield, Brema o Johannesburg. Rotterdam? Malmoe? Montepulciano? In attesa di un altro embrione shakerato giù. Morbidamente atterrato sopra il video dei New Order, quello girato a Cannes con la vecchia che abborda ragazzini. Buongiorno signori. A metà tra mare e montagna. Aria salubre, piogge fitte fitte. Dodicimilabitantiequalcosa. Guardandosi intorno non è nemmeno male, superato il primo, comprensibile, momento di sbandamento. Gli umani non sono male, soprattutto quella metà del cielo con pochi peli. Mi sento un po’ sconvolto, ma probabilmente sarà stata l’assenza di atmosfera e gravità alle quali è stato sottoposto l’embrione nel suo vagare millenario e convulso attraverso la galassia Toradol. Sono approssimativo come la Factory warholiana, i rifiuti nella corrente, i fiori recisi. Vedo degli umani farsi sempre più grandi e sfuocati, non mi dispiace se tentate di avvicinarvi ebbri di curiosità; non mi infastidite. Farsi avvicinare è un lavoro duro, che necessita di scremature e setaccio. Durissimo e dalle vaghe soddisfazioni, ma tra tanta sabbia ogni tanto brilla una pagliuzza d’oro da trasformare in pepita. Peccato l’acqua sia fredda e rovini le mani. Testa compressa da concetti viscosi, ho bisogno di un’espansione di memoria. Almeno altri quattro mega. I files si bruciano e non vengono cambiati. Scompaiono e non vengono salvati. Erazzerati. Gli hackers banchettano sui miei chip neuronali. Chi viene a farmi la manutenzione? Vale la pena aver vagato tra i pulviscoli per eoni per poi finire ad accontentarsi in questo pianeta?

         Erm… Signore… Sto parlando con te, vuoi mettere via quella rivista e cominciare ad ascoltarmi? E’ il tuo lavoro, dopotutto. Ecco bravo, dammi la tua attenzione ancora per qualche minuto. Non era forse meglio continuare il viaggio per poi finire in un semiletargo perpetuo? Se gli Dei se ne vanno e gli arrabbiati restano cosa succede agli accidiosi? Vengono murati in qualche discoteca la notte di ogni fine millennio? Soli, con un bicchiere di vodka siliconato nel palmo? Con Country House dei Blur in loop nelle orecchie? Con me vicino? Eh? Rutto. Colpa del Toradol. Vengo da un altro pianeta bambina tettoruta e sfuocata che ti stai avvicinando…Non ricordo dove ho lasciato l’astronave. Mi prendi con te? Pulisco casa, stiro, preparo da mangiare, pago le bollette, faccio anche l’insegnante di sostegno per i tuoi bambini. Prendimi con te. Li porterò a Gardaland almeno due volte l’anno, ti vorrò un gran bene. Prendimi con te, non assicuro di amarti. Prendimi comunque con te, sono pulito, veloce ed efficiente dalla metà degli anni sessanta. La prima metà. Non è poco. Vedo svanire il Gesù anticonformista con i jeans sdruciti sponsorizzato Nike che andava allo Studio 54 e adorava il funk per far posto ad una megera che sta portando via siringhe e cateteri usati con un grande sacco grigio.

         Non so dove sia Monroe, avrebbe anche potuto precipitarsi a trovare l’eroe ferito in battaglia. Altra fitta, stavolta non solo alle reni. Però in quei posti mondani ed frequentati va a finire che la cerco sempre. Anche se non mi pare che tutto questo romanticiume mi faccia onore. Sono o non sono cresciuto con Ramones, Sex Pistols, Damned, Adverts? Avevo o non avevo i capelli sparati e la maglietta Adolf Hitler European Tour 1939-1945? Si? E allora un attimo di compostezza, che diamine! Un po’ di rigurgiti punk, con la differenza che il No Future venga sostituito da un bel No Past. Almeno tra una fitta e l’altra. Chissà se quando hai raggiunto le dieci fitte ti regalano un catetere. Dove cazzo è ‘sto medico di merda? Sono un uomo giovanile ma non giovane, ed ho capito che la vecchiaia non è una roba da ragazzi; esigo un medico, dunque.

         “…Firmi qui, può andare” Chi cazzo è questo damerino biancovestito con quegli occhiali colorati alla Marco Mazzocchi? Da quanto sta armeggiando con il mio braccio per togliere l’ago? Dove cazzo è finito Gesù? E la tettoruta biancovestita? Scarabocchio un bel Fuck sul papiro e mi rivesto abbattuto. Cominciava a piacermi questo posto che puzza di Fanta.

         I did it my way.

Un consiglio:

http://ilmiolibro.kataweb.it/libro/narrativa/42120/pimlico/

Tre parole:

“Alle donne piacciono gli uomini taciturni. Credono che le ascoltino” (Marcel Achard)

“Scendendo dal grande al piccolo, ogni uomo vive come un selvaggio nella sua tana, e ne esce di rado per visitare il suo simile, del pari accosciato in un’altra tana. La grande famiglia universale degli uomini è un’utopia degna della logica più mediocre” (Laurèamont)

“Bevo soltanto per far sembrare gli altri più interessanti”
(George Jean Nathan)

Dieci suoni:

My Bloody Valentine, Loveless 1996

O.S.T., Eraserhead 1976

Tears For Fears, The Hurting 1983

Ramones, End Of The Century 1980

Young Marble Giants, Colossal Youth 1980

Irresistible Force, Flying High 1992

Harry Connick Jr., Blue Light 1991

D.A.F., Fur Immer 1982

Loop, A Gilded Eternity 1990

Biff Bang Pow!, The Acid House Album 1990

Autore: Michele Benetello

Ex un po’ di tutto, vivo da participio passato in mezzo a un gruppo funzionale costituito da due atomi di carbonio legati tra loro con un doppio legame, e tre atomi di idrogeno derivato dall’etene (etilene) per perdita di un idrogeno. Si chiama vinile. Mi piacciono le conchiglie, i cani, l’inverno e Cindy Crawford. Se rinasco vorrei essere Johnny Dean nell’esatto istante in cui indossa la giacca da ussaro a Top of The Pops. Per ora mi accontento.

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