Qualche centinaio di persone balla sulle note dei Chemical Brothers ed io sono sprofondato in una poltroncina. Monroe al mio fianco, a fare auto analisi del cazzo con una vodka tra le mani e un qualsiasi remix di Believe che mi si insinua dritto nella mia spirale del DNA. Sto di merda, ma di una merda che puzza poco. Tutte le facce che mi sfiorano sembrano conosciute, magari in una vita precedente, ma hanno un che di familiare, assomigliano tutti a Curt Smith dei Tears For Fears. Vorrei alzarmi e fuggire via, invece fisso Kornelia Ender e lo strano nerd tutto denti, capelli e bassezza che ballano a pochi passi da noi. Sembrano Morticia e Cugino It. Lei è sciupatissima come le rumene che si accampano la notte sotto casa mia e mi lasciano i kleenex vicino al tombino; Nanescu invece pare un incrocio tra Forrest Gump e Rain Man, con il testone ricoperto da folta peluria e lo sguardo da poveraccio. E questo è tutto quello che ho da dire sulla storia, signore. Uh uh, sì sì.
Il Bruce Springsteen dei poveri inserisce nel lettore Everyday I Love You Less And Less dei Kaiser Chiefs e non muovo un muscolo anche se la prendo come un avvertimento; questa non è una coincidenza. Ogni giorno ti amo sempre meno. La pista si svuota così posso vedere meglio i due che ballano. E’ il mio posto quello, ed è stato vigliaccamente usurpato mentre ero in esilio. Arriverà una rivoluzione che mi riporterà sul trono. Allora, e solo allora, abdicherò per vivere una vita normale. Potrei proporre uno scambio culturale: io mi riprendo mia moglie e il nerd si fionda su Monroe. Un contratto a tempo con possibilità di riscatto o di proroga. Oppure le prendo entrambe in leasing. Potrebbe funzionare?
Sono ghiacciato, congelato, ho raggiunto lo zero assoluto. E’ sulle ultime battute dei Kaiser Chiefs che si accende una di quelle lampadine subcutanee che provocano calori insopportabili e bruciature difficilmente senza residui di cicatrici. Uno di quegli interruttori che restano mesi, forse anni, nascosti dietro a qualche mobile convincendoti della sua non-esistenza, e poi quando meno te l’aspetti – magari in tempi di pulizie stagionali – ritornano fuori con i loro cavi sfilacciati e scoperti. Rischi la scossa, ma rischi anche che sia ancora funzionante. Mi accorgo che potrei ancora essere innamorato di mia moglie. Uno shock che la mia mente aveva sempre cercato di evitare; eppure volto la testa per vedere se Monroe esiste oppure è stato un sogno autoindotto per superare meglio il trauma della separazione precedente. No, no, lei c’è. C’è fisicamente. Le sue tette, le labbra, le mani bianco latte e tutto il resto battagliano con questo rigurgito nei confronti di Kornelia. Adesso quasi quasi le scoperei la sua migliore amica giusto per vedere le reazioni. Un bel corteggiamento con tutti i crismi, di quelli che non se ne fanno più per paura di rendersi ridicoli: i fiori, le frasi a metà – quelle che dicono tutto e che potrebbero non presupporre nulla -, gli inviti a cena, le strizzate in macchina, le telefonate nei momenti più impensabili, le carezze, i casa mia o casa tua?, i: come ho potuto fare questo? Tutto a regola d’arte. E poi diffondere la notizia. Minimo perderebbe un’amica, immagino. Dieci a uno che in capo a poche settimane telefonerebbe disperata. Ritornerebbe a Canossa. Tutte cazzate, cazzate che non riescono ad impedire a questa infelice sensazione di montare come panna nel mio stomaco e nella mia mente. Vorrei alzarmi e spezzare le gambe al nerd, lasciarlo agonizzante al suolo, umiliarlo, stringere il braccio dell’altra e portarla via con me come nei migliori film di Spencer Tracy o nelle fossette di Tracie Spencer. Ricominciare. Ma quando sfioro con lo sguardo Monroe so per certo che una parte del mio io la vuole, la vuole parossisticamente.
“Cosa c’è? Perchè non parli?” si accorge che la stavo scrutando con aria interrogativa.
“Perché non lo fai tu?”
“Perché sei tu il logorroico, in certi frangenti”.
“Non mi sei più molto simpatica, non riescono a essermi simpatiche le persone che mi respingono”. Almeno non mi si può accusare di ipocrisia.
“Questo è un problema tuo”.
“Già. Ma per forza di cose ti riguarda. Pochi giorni fa mi accusavi di non lasciarmi andare, di essere freddo e timoroso nell’instaurare una relazione. Oggi sei tu quella ad aver paura, o almeno così dai a vedere”.
Questo è un problema. E basta. Le potrei fondere, tutte e due, lasciando il nerd tutto denti e capelli con un palmo di naso. Lo stronzo. Spero la picchi, ecco.
“Come stai?” si preoccupa della mia saluta psicofisica, una presa in giro altamente fuori luogo.
“Odio quelli che ti chiedono come stai quando sanno per certo che stai male, anzi malissimo. Sono solo dei bastardi sadici che vogliono posare a buoni samaritani. Basta chiedermi come mi sento, basta!”
“Devi odiarmi un bel po’, vero?”
“Odiarti? La vedi quella? Quella che balla in quell’angolo, hai capito chi è, vero?…Beh …Non odio nemmeno quella, non vedo quindi perché dovrei odiarti. Diciamo che vi vedo sotto un’altra luce. O meglio, sotto un altro buio”.
“Hai capito che sto facendo tutto questo casino per evitare di prenderci a fucilate? Hai capito che è tutta una conseguenza di quelle stupide storie che mi facesti a casa tua quella sera? Hai capito che sei tu il responsabile?”.
Quante cose mi tocca capire, facciamo che magari provo a comprenderne una alla volta, quando e se ne ho voglia, ok?
“Noi individui di sesso maschile non siamo tenuti a capire, non è il ruolo che ci è stato assegnato. Noi siamo i bambini, noi rimaniamo bambini per sempre: prima i Lego, poi la villa al mare, prima le Polistyl poi le Ferrari. Prima capoclasse o capobanda, poi industriali d’assalto. Noi giochiamo a fare la guerra, e poi spesso finiamo per farla davvero; voi giocate a prendervi cura dell’eroe che torna dalle battaglie, ferito fuori e malconcio dentro. Non prendetevela con noi. Non siamo stati programmati per questo. E giuro, non è un alibi. Vorremmo capire, lo vorremmo tanto. Tantissimo. Troppo, forse”. Non sono mai stato così sincero come negli ultimi mesi, mi faccio paura “chiediamo continuamente scusa per non riuscire a capire, ma voi donne credete che le nostre scuse siano dovute al fatto che finalmente noi si abbia capito. Il solito, vecchio, volgarissimo problema dell’incomprensione tra uomo e donna”.
Non lo ammetterò mai, ma sono consapevole che la responsabilità degli ultimi avvenimenti è soltanto mia. Le mie colpe hanno effetto retroattivo. Non ho nulla da perdere, e dunque mi alzo, e lancio a Monroe e a Kornelia due baci, lanciandoli con la mano, come in una vecchissima pubblicità che ho da qualche parte, tra le pieghe della memoria. Non è sarcasmo, irrisione o scherno; è gratitudine. Sono grato al mio passato remoto e sono grato anche al mio passato prossimo. Ho vissuto lunghe gioie, dolori abissali e frammenti di sfrenata felicità. Mi alzo e me ne vado incapace di sostenere un minuto di più una simile situazione; più sollevato e triste di quando ero arrivato. Ma prima cerco Lino con lo sguardo, e lo vedo impegnato a cicalare ed a fare effusioni con un’amica del piccolo nerdoso; una bella sorpresa trovarlo sbavante e ai piedi di quella mantide religiosa. La conosco bene, da anni addirittura, e devo metterlo in guardia su quell’esemplare di specie umana. E’ pericolosa, non ha scrupoli e non mi è mai, ripeto mai, stata granché simpatica. Glielo devo a Lino, e cercherò di dargli un quadro della situazione con il maggior tatto possibile. Mal comune mezzo guano pare. Ma ora via, con la massima velocità, quasi fossi su un trampolino di lancio, pronto a fiondarmi su un’altra vita, sperando di non perdere l’equilibrio. Stavolta nessuno mi segue, ma forse tutti (Simone, Lino, Monroe, l’altra, gli amici del bar, lo stronzo) credono abbia fatto la consueta capatina al bar. O al bagno. Salgo in macchina sentendomi solo come Adamo (non il cantante di origini belghe) i primi minuti dopo essere stato forgiato. Vaffanculo, che mi frega delle donne? Non sono nemmeno appassionate di pop inglese, non ce l’hanno proprio nei neuroni. Le sento le lacrime, sono in dirittura d’arrivo ma riesco a frenarle se penso ad un po’ di sana cattiveria. Adesso so cosa mi può tenere a galla: un pò di cinismo e un pizzico di malvagità. Perché ho sempre farfugliato riguardo stili di vita eccentrici, o contro l’istituzione del matrimonio, o a favore della massima diffusione del porno cercando di ritagliarmi addosso la figurina del bastian contrario illuminato. Invece cercavo solo l’amore con la A maiuscola, quello che ti fa telefonare dalle cabine alle ore più stupide, che ti macchia la camicia di sudore solo per uno stupido bacio, che ti spinge agli appuntamenti un paio d’ore prima, masticando chewing gum, mangiando caramelle Fisherman’s Friends e fumando una sigaretta dopo l’altra. Un amore semplice, ma per sempre. Con un’adeguata colonna sonora. Per poter controllare le bollette del gas, i conti della spesa, gli acquisti discografici; per farci recapitare le pizze a domicilio qualche sera, per sbronzarci sul divano, finendo con l’entrare l’uno dentro l’altra come i moduli della Soyuz prima del rientro nell’atmosfera. E non è giusto che qualcuno abbia fatto la fila due volte, ricevendo in dotazione anche la parte di amore che mi spetta. Ridatemela. Adesso sì potrei usare le inserzioni delle riviste: “Scambio tutti i miei dischi per una donna eccezionale.”
Appena le due e un quarto. Ho tutto il tempo per volare al bar e sbronzarmi con la massima disciplina che posseggo. Ho una soglia bassissima di tenuta stagna per l’alcool, dopo un paio di whisky, un amaro e due birre rantolo come un gelato sotto il sole d’agosto. Questo mi salva da bevute pantagrueliche; d’altro canto per essere allegro e delicatamente disinibito mi necessitano solo un paio di bicchieri. Sono in un certo senso fortunato. Ho spirito, ma non lo reggo, per usare una battuta stantìa. Ma quella sera al bar batto tutti i miei record indoor, prosciugo almeno una mezza bottiglia di Southern Comfort ed un paio di bicchieri di vino. Voglio dimenticare di essere in visita diplomatica su questo pianeta; voglio dimenticare di avere un coinquilino come l’homunculus che mi bussa alle mutande ogni momento; voglio dimenticare che ho due IO che combattono battaglie da anni e che finiscono sempre pari; voglio che finalmente uno dei due prenda il sopravvento. Mi sparo anche un paio di tequila per chiudere con i fuochi d’artificio.
Mi porta a casa alle cinque del mattino Luigi il barista, intenerito forse dalla mia situazione, da quella del mio stomaco che continua a rigettare e dai nutriti scontrini fiscali che gli faccio digitare ogni sera nel registratore di cassa. Salgo da solo le scale di casa, prendendole come le prendeva Escher, mi lascio crollare sul letto vestito e parto per chissà dove, con la mente che oscilla tra pensieri in gaelico, osservazioni in sanscrito, caratteri cirillici, declinazioni in un latino che non esiste e Cicciolina e Moana ai Mondiali. Forse è meglio smettere. Di pensare, non di bere. Guardando la luce del lampione che filtra attraverso uno spiraglio delle persiane, mi scendono le stesse lacrime di rabbia che rigarono il volto di Franco Baresi dopo aver sbagliato il rigore a USA ‘94. Signori, si chiude.
Non ho coraggio di presentarmi in ufficio in queste condizioni, meglio darsi malato. Ho un grumo di pelo dentro lo stomaco e sento un bisogno estremo di vomitarlo, di lanciarlo addosso al muro. Mi concedo quattro giorni di totale spossatezza. Non voglio pensare a nulla, anche se i miei circuiti mentali continuano a sintonizzarsi sulla mia soap opera privata. Chiamo anche il medico, tanto per sentirmi in pace con la coscienza, che mi riscontra un abbassamento delle difese immunitarie. Da cosa l’avrà dedotto, non lo capisco proprio. E’ anche abbastanza piacevole questa situazione, mi sono volontariamente rinchiuso negli ottanta metri quadri del mio appartamento e lo sto trasformando in uno squat passato al setaccio da una squadra di football arrapata. Non voglio mettere il naso fuori per decine di ore, attacco la segreteria e lascio in sottofondo – affinché si diffonda lentamente per tutta la casa – una compilation punk, un po’ di ritmo vitale dovrebbe impedirmi di crollare a terra come corpo morto o di liquefarmi come alla fine di Terminator2. Non vedo nessuno per trentasei ore; i messaggi continuano ad accumularsi.
“Ehi, sono Lino… Che fine hai fatto? Dove sei sparito sabato notte? Chiamami.”
“Ciao, sono io, mi hai lasciata sola come un pacco. Giuro che, ti avessi avuto sotto le mani, ti avrei sfregiato senza pensarci. Tu devi essere malato, cosa ti prende? Non occorre tu faccia la vittima, io voglio rimanere amica e continuare a frequentarti. Vorrei anche anche tu capissi come sia improbabile oltrepassare quest’amicizia. Ti richiamo nei prossimi giorni. Per sfregiarti, ovviamente. Ciao.”
“Ciao, sono Elena. Stai male? Sono tre giorni che non ti vediamo al bar. Se hai bisogno di qualcosa chiamami senza problemi. Un bacio.”
“Uè! Sono Rubens…Cerca di rimetterti per venerdì prossimo, c’è una riunione importante, pare cambino il boss al secondo piano. Quando torni a lavorare?”
Infine almeno una mezza dozzina di messaggi a vuoto, ed è su quelli che si concentra la mia fantasia masochista.
Vorrei cominciare a parlare di libertà a quel blocco di pelo che mi ingorga lo stomaco, a quella specie di Gremlin dispettoso che regola i cursori del dolore; devo cominciare a coccolarlo affinché cominci a fidarsi di me. Adesso sono confuso, e non so se mi manchino fisicamente i miei oggetti del desiderio oppure l’idea degli stessi. Sono ancora legato a filo doppio, ho questo rapporto di dipendenza ostruito da blocchi, rancori, paranoie e sentimenti. Devo diventare autosufficiente ed autonomo rispetto a quella parte di me che mi dipinge di grigio la vita. E’ uno sforzo sovrumano, necessito di forza d’animo e responsabilità. Ma so per certo che ce la farò. Solo verso il giovedì comincio a riprendere in mano la mia esistenza, quando mi accorgo che l’impianto hi-fi è rimasto acceso ininterrottamente dai tempi della compilation punk. Fuso, penso con un moto d’orrore. Una doccia, un veloce cambio di biancheria, la bolletta del telefono ed una lavatrice stipata mi riportano nel mondo delle leggi economiche. Quando ho qualcosa che non va pulisco la casa con un parossismo che non ha eguali: spazzo, lucido, gratto, passo la cera, tiro a nuovo finestre, tolgo le tende, faccio risplendere il bagno, stiro, sgombro la cucina dai piatti accumulati, faccio respirare il forno, accatasto rifiuti in sacchi capienti, cerco con pazienza bottiglie vuote e briciole in tutte le intercapedini, cambio le lenzuola, stiro, vado a scovare la polvere dai posti più impensabili. Passo addirittura, con la precisione di una massaia maniaca, lo spazzolino tra le fughe delle piastrelle. Mi ci vuole mezza giornata ed un ulteriore doccia ma alla fine guardo soddisfatto il risultato del mio lavoro. Per almeno tre giorni è meglio mangiare scatolette o al ristorante, altrimenti rovino subito la monumentale opera. Almeno la cucina la voglio lasciare intonsa per un po’. Merito un premio. Spendo una cospicua parte del mio stipendio mensile in shopping, quasi fosse un premio per una nuova maturità acquisita. Un giro veloce per negozi dai quali riemergo con una camicia rossa stile Kraftwerk; una cravatta nera sottile sottile, di quelle fuori moda da tempo visto che adesso tutti i giovani rampanti viaggiano con accessori da collo ipercolorati e larghi come la Nimitz o come le loro stempiature; un paio di scarpe da ginnastica ed un impermeabile davvero fuori moda ma bellissimo, dal taglio anni ottanta tipo Joy Division al Futurama Festival. 40 euro in un negozio di vestiti di seconda mano. ‘Fanculo anche gli alimenti penso, questo mese, dovessero mettersi male le cose, aspetterà. Se ha problemi mi faccia chiamare dal suo avvocato. Che è donna, naturalmente, ed in faccia è talmente rugosa e incartapecorita come possono esserlo solo le mie palle dopo essere state immerse per quaranta minuti nelle acque termali.
E se provassi a cambiare aria per un po’? Potrebbe essere una buona idea o la solita forzatura inefficace? Inutile che io tenti di andarmene dal Joy e dal bar per frequentare posti alla moda e locali dove imperano ritmi latino-americani o discoteche griffate; sono stato morfologicamente e biologicamente forgiato per evitarle come la peste. Posso tentare di autoconvincermi che mi piacciono ma il mattino dopo mi sveglio sempre con un cerchio alla testa, conati di vomito ed una domanda: Dio mio, che ho fatto? Siamo sinceri, ognuno deve fare quello per il quale è stato programmato, ed i miei neuroni non rispondono alle sollecitazioni di locali strapieni di gente abbronzata, fighe imperiali con il sorriso prestampato e station wagon nuove di zecca. Io sono più un tipo da pizzeria di provincia e vini da muratori.
Rientrare al lavoro stavolta diventa una cosa affrontabilissima, e quasi me ne compiaccio. Con il solito menefreghismo da impiegato statale fisso cinque giorni di ferie per il ponte del mese successivo, li sottolineo in rosso sul lungo cartellone atto alla bisogna che orna una parete della sala riunioni. Pieno d’ansia e di timore decido di programmare le mie prime vacanze in solitaria da oltre dieci anni, senza una controparte femminile al mio fianco. Forse tornerò a casa disperato dopo qualche ora. Forse no. Intanto va affrontato il combattimento con il capufficio per strappare quei cinque giorni; mi accusa velatamente di assenteismo e di scarso impegno produttivo ma mi difendo bene rimarcandogli che una predica simile da uno che ogni pomeriggio esce due ore in anticipo per dare una mano nel negozio di abbigliamento della moglie e che a Natale riceve sempre dei regali particolari per ricompensarlo dei piaceri al limite dell’illecito che concede ai pezzi grossi della zona non la accetto proprio. Subisce il colpo finchè giungiamo ad un patto di non aggressione, di sicuro appena avrà l’occasione me la farà pagare, intanto però io tiro dritto per la mia strada come un missile, e la mia strada non collima con la sua. Dalle nove alle cinque sono un autonomo extraparlamentare, una spina nel fianco del sistema capitalistico, un esponente delle Brigate Rosse delle USL infiltrato nei laboratori di analisi in possesso di un contratto speciale che riduce a 36 ore settimanali il suo impiego. Poi mi calmo, e ciò avviene puntualmente ogni giorno – dal lunedì al venerdì, qualche volta il sabato mattina – in concomitanza con l’uscita Fantozziana da quel carcere speciale. Mi prendo le mie ore d’aria, affronto un sonno spezzato da incubi e mi preparo per il mattino dopo. Così, ogni giorno, per settimane, mesi, anni. Fino alla fottuta pensione. Due mesi in apnea prima di un nuovo raggio di sole.
Un consiglio:
http://ilmiolibro.kataweb.it/libro/narrativa/42120/pimlico/
Tre Parole:
“Sono i peggiori a dettare le leggi ai migliori” (Roosevelt)
“Ma in questa notte estremamente fausta permettimi dunque in luogo del più consueto nomignolo di accennare al carattere di questa Dramatis Persona. Voilà. Alla Vista un umile Veterano del Vaudeville, chiamato a fare le Veci sia della Vittima che del Violento dalle Vicissitudini del fato. Questo Viso non è Vacuo Vessillo di Vanità, ma semplice Vestigia della Vox populi, ora Vuota, ora Vana. Tuttavia questa Visita alla Vessazione passata acquista Vigore ed è Votata alla Vittoria sui Vampiri Virulenti che aprono al Vizio, garanti della Violazione Vessatrice e Vorace della Volontà. L’unico Verdetto è Vendicarsi… Vendetta… E diventa un Voto non mai Vano poiché il suo Valore e la sua Veridicità Vendicheranno un giorno coloro che sono Vigili e Virtuosi. In Verità questa Vichyssoise Verbale Vira Verso il Verboso, quindi permettimi di aggiungere che è un grande onore per me conoscerti e che puoi chiamarmi V” (V Per Vendetta)
“Se raccogliessero tutte le frasi che ho detto capirebbero che sono un idiota e la smetterebbero di farmi domande” (Andy Warhol)
Dieci suoni:
Billy MacKenzie, Outernational 1992
Pankow, Treue Hunde 1992
Roxy Music, Siren 1975
XTC, English Settlement 1982
Headman, On 2006
De La Soul, 3 Feet High And Rising 1989
Judy Nylon, Sweet Punishment 1983
Madonna, Erotica 1992
Breathless, Three Times And Waving 1987
Man Or Astroman?, Eeviac 1999