Pimlico – Capitolo 16

We Are Your Friends

Justice Vs Simian 2006

“Quando i miei amici sono guerci, li guardo di profilo”

Joseph Joubert – Pensieri

         Pare, si dice, è consuetudine pensare, che ognuno abbia gli amici che si merita. Almeno così il mondo millanta. E probabilmente è vero che ci si scopre attirati da persone – di qualsiasi sesso – che magari proprio simili a te non lo sono, ma contengono una buona percentuale di elementi che contribuiscono a completarti. Se l’uomo è un animale sociale, gli amici che mi sono caduti in dono (Lino a parte, sempre gli stessi sin dai banchi di scuola se non prima) ne sono un ottimo esempio. Oggi il ritrovo è quello dell’osteria, con il Caronte Luigi a traghettarci dentro e lungo le notti, e con Lino invitato a corte da poco, ovvero da quando si è trasferito in questa mediocrità geografica, dopo quella prima volta in cui ha fatto capolino al bar, un martedì sera di un lontano novembre. Canottiera e infradito, barba di tre giorni e pelo bene in vista come un calabrese degli anni quaranta, ammiccandoci e pagando a tutti un giro prima che cominciasse il fuoco di domande incrociato e finissimo la nottata a casa sua, a gozzovigliare con pane e salame. Ma sono ben altri gli individui che mi porto appresso dall’infanzia e che hanno condiviso con me il cambiamento dei tempi.

         Giò, ad esempio; il compagno timido ed emaciato, il vicino d’appartamento che mi accompagnava per mano all’asilo e che ora vedo solo a Natale e a Pasqua, quando torna a casa per salutare la vecchia madre e la sorella, tenacemente abbarbicate ad una palazzina piena di cimeli religiosi. Due donne che portano sul viso i segni di milioni di vesperi e ora pro nobis, due suore bianche che passano la vita tra il prato ben tosato del cimitero e i banchi profumati d’incenso della chiesa; due che hanno fatto di tutto per castrarlo prima che lui alzasse la testa e volasse via, rifiutando il bar e la vita mediocre che ha atteso tutti noi nell’ombra. Mi manca, mi manca perché era simile a me e forse lo è ancora, soltanto con una maggior forza di volontà, che ha saputo estrarre dal fodero al momento opportuno. Il primo amico della mia infanzia è stato lui, ci sentivamo uguali e non esitavamo a costruirci un mondo parallelo, dove poter giocare senza essere disturbati da nessuno. Piccoli, col moccio al naso, pantaloni corti, sandali le ginocchia sbucciate, pronti a sbirciare la scollatura della barista che abitava qualche metro dopo le nostre porte e che non lesinava nel mettere in mostra una merce che ancora non sapevamo quanto in futuro ci avrebbe attirato; sempre malaticci, chiusi in quei quattrocento metri quadrati di verde che erano il retro delle nostre case, un cubo di verde clorofilliano al centro di un paese. Né grande, né piccolo, soltanto un paese. A vederlo dall’alto tutto quell’ammasso di casette democristiane fatiscenti e con il cuore colorato, sembrava un pugno di ferro in un guanto d’orchidea. A me piaceva, comunque, e piace tuttora. Lo indosso ancora bene. Avevamo escogitato un buon sistema io e Giò per chiamarci ogni sera al balcone eludendo la vigilanza Mater: usavamo quelle coloratissime pile elettriche che ti davano in omaggio alla fine degli anni sessanta con un cambio d’olio alla Gulf. Ci sentivamo degli archeologi della notte, e parlavamo per ore, pesando ogni parola quasi fosse una pepita vecchia migliaia d’anni, facendoci dei segnali luminosi che solo noi conoscevamo. Si continuava a sussurrare finché una voce non veniva a interrompere il brusio, una voce che terrorizzava e sospendeva le nostre frequenze. E scappavamo al riparo delle nostre finestre, spegnendo la pila. Mi ritrovavo a pensare a quanto fosse vacuo ed inutile il tempo, a quanto fosse claustrofobico attendere il passare dei secondi, vederli trasformare in ore, giorni, modificarsi in anni ed esistenze. Inesorabilmente. Erano questi i pensieri delle odiate notti d’estate che precedevano l’intravedersi della mia adolescenza. Lei e il suo potere, la sua guerriglia d’ormoni pronta a frustarti per sempre con il cancro della nostalgia. E’ un epilessia di singhiozzi, quell’amica bastarda e cinica. Lo sento ancora – nelle sere d’estate – quell’odore caratteristico, pur avendo cambiato quella casa da almeno trentanni anni; un aroma intriso di polvere, sabbia, acqua sull’asfalto torrido, smog ed erba recisa di fresco. Lo sento anche se la Gulf non esiste più da almeno venticinque anni, sostituita dal più trendy Q8. E sento ancora Giò, ci troviamo di rado ma ci troviamo; non abbiamo più quell’oggetto ruggi-luminoso ma ci resta il brusio che ci scambiamo quale riflesso condizionato della nostra infanzia. Fingiamo di avere undici anni? Che il sesso debba ancora arrivare? Che i Ramones, le acciughe sulla pizza, i 45 giri, Londra, il walkie talkie, le biglie, le corse a perdifiato lungo i marciapiedi con un pacco di figurine in mano e tutte le circonvoluzioni della mia personalità siano una nebulosa che ancora si deve districare? Facciamo che la domenica qualche volta ci facciamo portare al mare dai genitori o dagli zii di qualcuno chiacchierando amabilmente sul sedile posteriore come se fossimo mollemente adagiati su un taxi? Facciamo finta di essere nel bozzolo come in quei giorni talmente miseri e di poco conto da risultare felici? Facciamo che passiamo ancora le domeniche mattina ad odorare le bustine delle figurine Panini, con quell’odore così caratteristico ed inquietante, un misto di colla aliena, spezie e disinfettante? Facciamo che Giò torna a trovarmi più spesso? Non si può, dice. Non si può. Lui ora è sposato e vive in montagna, ma è ancora più bello vederlo due volte l’anno, attendendone la venuta come i bimbi aspettano lo zio lontano o Babbo Natale.

         E’ con Giò che durante i giorni della separazione, quei giorni arrampicati sul vino e sull’abbandono, mi sfogai al bar della stazione, mentre entrambi attendevamo il treno che l’avrebbe nuovamente condotto a casa fino alla prossima volta; è lui che, con la praticità dell’uomo abituato a combattere la terra, mi consigliò di recarmi a casa sua per qualche tempo. Si sarebbe messo di buzzo buono per massacrarmi di lavoro disse, perché non c’è niente di meglio dei calli sulle mani per impedire il formarsi di quelli sul cuore. E come dargli torto: è felice; felice come poche persone possono essere quando si accontentano di quello che hanno e non di quelli che vorrebbero avere. Ha rinunciato a tutto e a tutti, rifugiandosi tra le vette con qualche bestia, un piccolo gregge, una moglie simile a lui e una casa di pietre che serve da focolare e posto di ristoro per tutti quelli che vogliono affrontare le Alpi Carniche. A forza di lavorare la terra e tenere a bada i suoi simili – quelli incattiviti dalle asperità geografiche, quelli che cercano aria rarefatta e solitudine – è diventato un omaccione. Il pallido ed emaciato Giò è un pezzo d’uomo dai bicipiti marmorei e dalla barba ispida e potente come i suoi muscoli. Pare un rugbista, oggi. Il gigante buono che afferrava Jo Condor per la collottola. E mi manca, ma sono felice che abbia spezzato la catena bigotta della famiglia.

         Era una bella classe la nostra quinta elementare, prima che le ottuse medie inferiori ci portassero via; prima che ognuno di noi scegliesse un lavoro, una strada, una facoltà, un inferno pubblico o un paradiso privato. Magari artificiale, come il tenero Giulio; il terzo da sinistra a completare la penultima fila di banchi di quella 5°B del 1971. Penultima, ovvero secondi nel ranking in ordine di importanza e intemperanza dopo i temibili cugini Pastega, ignoranti patentati capaci solo di tagliarti il fondo della cartella, sbatterti la forfora sui quaderni, scrivere oscenità sui bagni omettendo tutte le doppie omettibili o appiccicarti chewing gum masticate dentro la canottiera durante le ore di religione. Giulio invece era sin d’allora uno spirito delicato e impressionabile, un acuto osservatore trascinato da noi nelle avventure più improbabili e in quella penultima fila; era il ragazzo che passava i pomeriggi in casa mia per sfuggire alla sua famiglia, una figura che sarebbe stata perfetta per il libro Cuore e che a otto anni ancora non sapeva che gusto potesse avere la Nutella, e la cui faccia dopo avergli fatto annusare il barattolo ho ancora ben nitida in mente. Messo a lavorare in un macello a quattordici anni e tossicomane a diciassette senza sapere il perché, o forse conoscendone troppi. Forse per trovare un pertugio in questo schifo di paese cattolico fino alla nausea che lo chiamava Giulietto Bianco per canzonare il vizio autodistruttivo del padre, sempre stravaccato in qualche bar con un bicchiere in mano e la bocca piena di oscenità.

         Si perdette per un decennio il piccolo, ma noi sapevamo che sarebbe tornato, vivo o morto ma sarebbe tornato in paese, perché lui era quello che lo amava più di tutti e più di tutti voleva esserne accettato. Furono due anni di galera a cambiarlo, due anni presi da innocente quando – semicosciente – venne usato da una macchinata di pezzi di merda ai quali si era avvicinato nei pressi dell’ippodromo per farsi vendere la dose. Lo caricarono in auto e, mentre lui spiaggiava beato sui sedili posteriori, loro si divertivano a rapinare un ufficio postale, prima di abbandonare auto e Giulio in un garage dismesso. Venne trovato col sorriso ignaro di quello al quale chiedono pegno per un attimo di felicità donata. Naturalmente, come spesso accade per chissà quali astruse motivazioni italiote, dei rapinatori nessuna traccia. Giulio non volle o forse non riuscì a far nomi e il caso venne archiviato con un unico colpevole. La giustizia si era messa la coscienza a posto, Giulio avrebbe pagato per tutti e la refurtiva se la sarebbero goduta i pezzi di merda. Spettacolare soluzione salomonica. Oggi queste sono tutte cose passate, lasciate alle spalle. Uscito di prigione si è messo a posto, è tornato a lavorare in fabbrica, si è sposato Ludovica ed ha due figli meravigliosi: Fiammetta e Geno. Sì, Geno. Con la E come Geno Washington ed il successo dei Dexys Midnight Runners. Due creature bellissime che voglio credere gli siano state donate per compensare una vita davvero di merda e a credito. Rimane sempre la mascotte del gruppo, quello più ingenuo, quello che non riuscirà mai a togliersi tutti gli impicci di dosso. Quello da aiutare. Ma sarà anche quello – mi ci gioco le palle – che ci accompagnerà tutti in cimitero. Sia chiaro, nessuno osa più chiamarlo Giulietto Bianco oggi, avrebbe comunque da renderne conto anche a noi, e assicuro che non è bello vedersi arrivare addosso Simone o Lino. Quanti ricordi giovanili con Giulio: dalle fughe al mare in Vespa – da lui sempre prese amorevolmente in prestito – alle eccentriche esibizioni durante le feste scolastiche, quando me lo portavo appresso per l’orrore di tutti gli studenti fighetti e arrivavamo vestiti da Gary Glitter o Marc Bolan mentre quei pidocchietti si dimenavano su Barry White e il Philly Sound. Poi finiva immancabilmente che il suo discreto fascino tenebroso ghermiva qualche eccitata pollastrella ed io rimanevo ad attenderlo su qualche poltroncina, sudato e con il mascara colante. Mille e mille volte, ad ogni festa studentesca, finché quasi ci rimettemmo le penne per aver varcato i cancelli della discoteca più alla moda del centro; il posto dove i maggiorenni passavano le domeniche pomeriggio a bere Batida al cocco. Sarà stato il 1979, se ben ricordo… Quella volta arrivammo agghindati come i peggiori Bauhaus solo per farci due birre, ignorando che in cinque minuti ci saremmo trovati accerchiati da almeno sei di quei cani rabbiosi, visibilmente disgustati dalle nostre tenute catacombali e colpevoli di aver sconfinato in un territorio di loro esclusiva proprietà. Al secondo schiaffo sulla testa partimmo con due testate prima di fuggire a gambe levate approfittando della confusione, correndo a perdifiato per vicoli e viottoli nel freddo e nel buio di un maledetto tardo pomeriggio dicembrino. Urlavano come ossessi, i danarosi bastardi, mentre ci rincorrevano con le bave alla bocca, manco fossero stati tifosi del West Ham. La scampammo per un pelo, con una paura fottuta nei calzoni, non immaginando lontanamente cosa avrebbe potuto accadere se soltanto ci avessero presi.

         Tutte le situazioni più particolari le ho sempre vissute assieme a Giulio, sempre. Quando c’era da innalzare la provenienza proletaria io e lui eravamo un’entità unica, sia che ci fosse stato da sfidare manganelli e molotov alle dimostrazioni della sinistra giovanile sia che avessimo deciso di entrare nottetempo in casa di qualche liceale con la grana, magari approfittando delle festicciole stupide e snob per infiltrarsi. Si fingeva di essere amici di amici, si cercava il bagno al piano superiore e si correva a svuotare il porta gioie della padrona di casa o a sottrarre qualche schifoso ellepì da rivendere all’usato, robaccia tipo Eagles, Boston o REO Speedwagon. Sembravamo i Gianni e Pinotto della periferia, troppo paurosi per non farlo, troppo soli per perderci l’un l’altro. Questo per anni, finché gli vidi sbiadire gli occhi a poco a poco, diradando le apparizioni e tenendomi volutamente alla larga. Solo dopo molti anni – dopo esserci ritrovati – mi spiegò la sua durezza, messa in atto per tenere fuori almeno me da giri strani e polverine mortali. Non ho mai capito, non sono mai riuscito esattamente a sapere come sia caduto nel giro della droga, non ho nemmeno mai avuto il coraggio di chiederglielo, però la curiosità è tanta, e non fosse per una sua totale chisura di ricordi verso quegli anni una volta o l’altra vorrei davvero prendere il coraggio a due mani e porgli la fatidica domanda.

         Solo due numeri civici separavano Giulio dalla casa di Simone e Dio solo sa che differenza intercorresse in quei pochi metri. Simone era l’esempio del benessere italiano degli anni sessanta, la prova della rinascita economica nell’Italia del dopoguerra. Il padre aveva fatto una piccola fortuna con un negozio di ferramenta e Simone era l’unico che – già alle elementari – pareva un diplomatico o un ambasciatore, lindo e impeccabile nei suoi completini. Facce di una stessa medaglia lui e Giulietto, con Simone a vivere di un vero e proprio culto della personalità nei confronti dell’amico, naturalmente sempre mal tollerato da quest’ultimo, quasi fosse una questione di lotta di classe. Io rimanevo l’ago della bilancia in questa strana storia di equilibri ed amicizia. Come che sia Simone ha avuto un iter completamente diverso rispetto a tutti noi, si è laureato, ha studiato in Francia e fatto un breve tirocinio negli Stati Uniti dai quali è tornato dapprima con una moglie tanto gnocca quanto svangacoglioni che lui ormai considera un soprammobile ornamentale, naturalmente ricambiato, e poi con un posto di dirigente senza scrupoli. O meglio, con degli scrupoli speciali e una visione della vita solo ed esclusivamente sua che, stranamente, funziona. E’ un bastardo che non ti conviene avere contro, un Robin Hood hooligan difficile da spiegare a chi non fosse avvezzo ai suoi modi anticonformisti. Uno che, se provi a prendere per il culo o solo se ne accorge, ti fa sputare sangue usando tutti i mezzi necessari. Simone, detto il Verga perché ha tutte le fortune, oltre ad una vaga somiglianza con Jeremy Irons, uno al quale leggi dritto in faccia di aver passato una vita agiata e piena di comfort. Non che te lo faccia pesare, anzi se sei nei guai sai che Simone è un rifugio sicuro.

        Mi fa impazzire il suo comportamento lavorativo nella grossa azienda dove è in odore di consiglio d’amministrazione. E’ formidabile quando ci rivela di ingaggiare solo genialoidi dal curriculum intonso, maschi bianchi celibi e sfigati, dalla totale assenza di vita sociale e completamente dediti al lavoro; oppure ragazze giovanissime e dalla bellezza statuaria, nelle quali l’eventuale basso quoziente intellettivo è per lui un valore aggiunto. Le assume con contratti particolari a tempo determinato – che spero siano legali – e pagate più dei nerd ai quali fa sputar sangue, perché dice che la bellezza dura meno della professionalità e quindi è una sfiga che va premiata subito. E perché una donna giovane e bella è già un affare: sono loro – spiega sempre – a procurarti contratti vantaggiosi fuorviando clienti ottusi, magari solo per aver servito un caffè in minigonna ascellare. Poi i miei nerd vanno a perfezionare le clausole blindando l’ignaro acquirente, ma il merito è interamente da ascrivere a queste ragazze perché, checchè se ne dica, l’uomo è soltanto uno stupido che davanti ad una donna diventa uno zerbino, un animale ammaestrato a subire. Io non capisco ma mi adeguo alla sua strana filosofia; non capisco nemmeno se abbia mai approfittato di queste formose bellocce, ma sarei davvero ingenuo se lo andassi ad immaginare casto e puro in quel mega ufficio dalle vetrate enormi, circondato da figa giovane, lasciva e compiacente.

         Strano Simone, tanto strano da aver sempre vissuto un complesso d’inferiorità verso Giulio, quasi gli avesse sempre invidiato gli umili natali e la dolorosa libertà che ne conseguiva; amico particolare e dallo scrupoloso codice morale, sempre pronto ad aiutarci di nascosto senza giungere alle umiliazioni. Come quella volta che, personalmente (ovvero di tasca propria, un concetto ormai in disuso nella povera italietta) fece in modo che Giulio – in uno dei suoi tanti momenti di difficoltà economica post eroina – trovasse per terra un grumo di fogli da centomila lire, seminati ad hoc.

         E’ lui ad aver spronato per il famoso viaggio in terra inglese, lui ad averne organizzato l’aspetto logistico, sempre lui ad aver voluto donare due giorni di spericolata spensieratezza alla penultima fila di banchi di quella 5°B.

         Una quinta dove vegetavano anche Alfonso e Luca. Il primo è l’amico a rate, l’uomo assente e mai partecipe, relegato all’estrema destra. Il pazzo dagli occhi di ghiaccio e i mille tic nervosi che bramava per poter partecipare ai nostri giochi, non fosse stato condizionato a vedere pericoli ovunque. Ancora oggi non sappiamo quasi nulla di lui, lo vediamo comparire dopo lunghe assenze per poi svanire senza conoscerne i motivi. Per riuscire a varcare la porta di casa sua dovemmo raggiungere la maggiore età, dopo un attento esame da parte della sua austera famiglia, bastarda sin dalla scelta del nome. Alfonso è una sfinge silenziosa, un uomo ai margini, un totem, una persona che non va cercata ma attesa, e al quale non di devono dedicare troppe parole. Uno che non mi stupirei di leggere una mattina sul giornale, reo di strage, Premio Nobel o pedofilia. Uno che potrebbe benissimo avere il frigo pieno di membra umane.

         Luca invece se n’è andato un mattino di tanti anni fa, attaccato ai tubi del reparto malattie infettive, divorato da qualcosa che non riesco nemmeno a nominare tanto è crudele e assurdo per un ragazzo di 21 anni. L’ho visto consumarsi e spegnersi come una candela di cera con lo stoppino difettoso, seguendo l’iter della malattia assieme alla famiglia e a gran parte della 5° B, riservandomi tutte le lacrime per un domani che poi è arrivato troppo presto. Mi mette ancora angoscia solo il ripensare a quei mesi, mi tornano in mente i silenzi ovattati del reparto, le tele cerate verde menta, lo strano odore di disinfettante che mi seguiva ovunque, gli sguardi truci dei medici, il ronzìo delle macchine e la crudele noncuranza delle suore bastarde con le quali non perdevo tempo a discutere ma le mandavo a cagare e basta. Non so quando mi toglierò quell’ansia, forse quando metabolizzerò il fatto che solo per un caso del destino non è toccato a me, e non devo continuare a sentirmi in difetto per questo. Di solito è un’ansia che scaccio pensando a quella che mi induce Alfonso, usando la tecnica del chiodo scaccia chiodo; lui davvero mette in apprensione e in affanno, mi ha sempre dato l’idea di poter sbroccare da un momento all’altro senza un particolare motivo. Non dormirei in camera con lui per nessun motivo al mondo, questo è sicuro.

         Come non dormirei con Mirko e Mauro, i due figli di puttana immorali che sono stato costretto da sempre a sopportare dacché amici di Giulio e Simone, due bastardi malvagi che godono delle disgrazie altrui, spesso provocandole. Non a caso erano gli unici che in quella 5°B trovassero divertenti i cugini Pastega, aiutandoli nelle loro miserrime imprese. Due vermi  toccatimi in omaggio e che devo tenere come si tiene un cancro latente; sono innumerevoli ormai le discussioni, anche accesissime, al limite dello scontro fisico, che ho avuto con i due delinquenti, non ultima quella durante la quale avevo minacciato di denunciarli per aver quasi stuprato una diciannovenne al luna park. Prima che ci pensassero i fratelli della poveretta, con tutto il mio entusiasmo e il mio plauso. Diciamo che le due tenie possono tornare utili in alcuni frangenti: servono se ti trovi in mezzo ad una rissa, servono se qualcuno di grosso ti importuna, se hai problemi burocratici in qualche ufficio statale o soltanto bisogno di un pezzo di ricambio per l’auto. Insomma, Mirko e Mauro non sono amici miei, non lo sono mai stati e mai lo saranno; sono conoscenza altrui che per la proprietà transitiva girano anche con me, sempre rimanendo a distanza di sicurezza. Come girano a distanza di sicurezza da Lino. Lui non ha perso tempo, li ha messi in guardia da subito con un bel messaggio subliminale a cinque nocche fatto recapitare direttamente sul loro stomaco una sera in cui i due dementi avevano detto una parola di troppo nei suoi confronti, credendo di scherzare.

         Insomma, gli amici me li sono sempre portati appresso dai banchi di scuola. Ed è una prova di vita che fa da spartiacque importante. Se superi le difficoltà e le divergenze puoi sedimentare l’unione per sempre, come ho fatto con la penultima fila della 5°B. Eravamo inseparabili, noi di quella fila; almeno fino alle scuole medie, quando Simone venne iscritto alla scuola privata dei Salesiani, primo ad uscire dal quel Circolo Pickwick di provincia.

         Se in Giulio, Simone e Alfonso ho cozzato alle elementari e Giò è il mio più antico ricordo di amicizia, Darioluca è stato il mio guru all’Istituto Tecnico verso la fine degli anni settanta. Lui era la guida, quello avanti, il ragazzo che aveva già una cultura personale, una coscienza politica, delle letture e una visione della vita che ritenevo giusta e che poi ho fatto mia, con alcuni aggiustamenti. Si chiamava proprio così: Darioluca; quasi che un nome solo a lui non bastasse per prendere di petto e aspirare la vita. Darioluca, un nome del cazzo a pensarci bene, quasi come Alfonso, e io infatti mi ostinavo a chiamarlo Dielle, facendolo arrabbiare ogni volta. Era quello che mi spiegava gli errori senza giudicare e che – se serviva – mi metteva le mani o la verità in faccia quando facevo lo stronzetto. Dielle mi ha plasmato, insegnandomi a il passo che intercorre tra sopravvivere e vivere; rimanevo affascinato quando agiva al limite del brigatismo ideologico, e fui il primo ad abbracciarlo – anni dopo – alla sua laurea. Ne ha due, oggi: Sociologia (chiaro) e psicologia. E’ capo redattore di un importante quotidiano, vive nella vacua Milano e non lo vedo da almeno cinque anni. I nostri unici rapporti odierni avvengono tramite e-mail, telefonate sparse e alcune cartoline che mi arrivano dai posti più impensabili del pianeta. Servirebbe uno come lui al bar. Ha un metodo nella sua follia, e  una logica nella sua confusione; scapolo convinto, vive in 70mq all’estrema periferia lombarda, tra la peggiore feccia multirazziale del terzo millennio, ancora fedele alle sue idee maturate in quell’Istituto Tecnico. Ovviamente – e come potrebbe essere altrimenti? – per qualche inspiegabile caso del fato in questi trent’anni si è accompagnato ad alcune tra le più belle donne d’Italia, molte delle quali tuttora famose grazie a qualche artifizio plastico. Un ammirabile coglione. Avrebbe potuto davvero diventare una celebrità dei media, se solo avesse piegato il suo comportamento guerrigliero quel tanto che bastava per intrufolarsi nei pertugi che contano, magari facendosi aiutare da quel fascino brizzolato che da sempre si porta appresso. Invece niente, sempre a cercare lo scontro, sempre integerrimo, incorruttibile, persino noioso nella sua ostinazione. Mai una volta che abbia cercato di mediare, ‘sto Talebano d’Occidente. Un giorno dovrò confessargli tutto il mio rispetto, magari con una cartolina e un bel paio d’offese ben assestate.

         Quante sono dunque le strade che si possono intraprendere in una vita? Quante le biforcazioni che andiamo ad incontrare nel cammino? E quanta differenza intercorre tra soggetti così disparati come possiamo essere io, Giulio, Dielle, Alfonso e quel santo bastardo di Simone? E’ chiaro che dinanzi a noi mezze calzette come Banana rimarranno sempre dei mediocri fasulli pronti a vivere in leasing conto terzi, delegando il cervello a qualche rete tv. E quindi, se ognuno ha gli amici che si merita allora io – nonostante tutto, mi reputo fortunato. Ma adesso è ora che si dia da fare per tirarmi un po’ su questo morale del cazzo. Magari chiamandoli tutti a raccolta al bar.

Un Consiglio:

http://ilmiolibro.kataweb.it/libro/narrativa/42120/pimlico/

Tre Parole:

“Ho sempre saputo che ti passa davanti agli occhi tutta la vita nell’istante prima di morire. Prima di tutto, quell’istante non è affatto un istante: si allunga, per sempre, come un oceano di tempo. Per me, fu… lo starmene sdraiato al campeggio dei boy scout a guardare le stelle cadenti, le foglie gialle degli aceri che fiancheggiavano la nostra strada, le mani di mia nonna, e come la sua pelle sembrava di carta. E la prima volta che da mio cugino Tony vidi la sua nuovissima Firebird. E Janie… e Janie… e Carolyn. Potrei essere piuttosto incazzato per quello che mi è successo, ma è difficile restare arrabbiati quando c’è tanta bellezza nel mondo. A volte è come se la vedessi tutta insieme, ed è troppa. Il cuore mi si riempie come un palloncino che sta per scoppiare. E poi mi ricordo di rilassarmi, e smetto di cercare di tenermela stretta. E dopo scorre attraverso me come pioggia, e io non posso provare altro che gratitudine, per ogni singolo momento della mia stupida, piccola, vita. Non avete la minima idea di cosa sto parlando, ne sono sicuro, ma non preoccupatevi: un giorno l’avrete.” (American Beauty)

“Se c’è qualcuno che deve tutto a Bach, è proprio Dio” (E. Cioran)

“Il problema con il mondo è che tutti sono indietro di qualche drink” (Humphrey Bogart)

Dieci Suoni:

Controller.Controller, History 2004

The Delmontes, Carousel 2006

Chapterhouse, Whirlpool 1990

The Motels, The Motels 1979

New Model Army, No Rest For The Wicked 1985

SPK, Machine Age Voodoo 1984

Run DMC, Raising Hell 1988

In Embrace, Wanderlust (82-84) 1986

Ikara Colt, Chat And Business 2002

Shirley Bassey, Never, Never, Never 1973

Autore: Michele Benetello

Ex un po’ di tutto, vivo da participio passato in mezzo a un gruppo funzionale costituito da due atomi di carbonio legati tra loro con un doppio legame, e tre atomi di idrogeno derivato dall’etene (etilene) per perdita di un idrogeno. Si chiama vinile. Mi piacciono le conchiglie, i cani, l’inverno e Cindy Crawford. Se rinasco vorrei essere Johnny Dean nell’esatto istante in cui indossa la giacca da ussaro a Top of The Pops. Per ora mi accontento.

Commenta l'articolo

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *