Sembrerebbe ridicolo parlare di rinascita del cinema italiano grazie ad un solo film, eppure questa è la sensazione che si prova al termine della visione dell’opera prima di Gabriele Mainetti, LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT.
D’altro canto il 2015 per il nostro cinema si può considerare un’annata interessante.
Abbiamo visto NON ESSERE CATTIVO, il film postumo di Claudio Calegari, il poeta dell’umanità negletta delle borgate romane, con due interpreti fantastici, uno dei quali, Luca Marinelli, risplende nel ruolo del cattivissimo Zingaro in JEEG ROBOT.
Sempre restando nei bassifondi della malavita, abbiamo visto SUBURRA, un dignitoso film di genere, di derivazione televisiva ma con maggiori ambizioni.
Di tutt’altro genere invece Antonia, il film d’esordio di Ferdinando Cito Filomarino, biopic raffinato e fin troppo rarefatto sulla vita della triste poetessa Antonia Pozzi, morta suicida a 26 anni eppure considerata una voce molto importante della poesia italiana.
Abbiamo avuto le conferme di maestri quali Garrone, con Il Racconto Dei Racconti, e Moretti, con Mia madre, e abbiamo testato la maturità raggiunta da Saverio Costanzo con un film, Hungry Hearts, duro e a tratti irritante, ma sicuramente riuscito.
Non dimentichiamoci del documentario, un genere che pare molto consono ai cineasti nostrani.
L’anno scorso c’è stato il bellissimo Louisiana, di Roberto Minervini, ed è di poco tempo fa la vittoria del nuovo, meraviglioso film di Gianfranco Rosi, Fuocoammare, che ha conquistato l’Orso d’Oro all’ultimo festival di Berlino.
Anche considerando i film che non ho visto, credo però che Lo chiamavano Jeeg Robot, su tutti, sia il rappresentante di questa “nuova ondata”, diciamo così, di cinema italiano.
Molti sono gli elementi che contribuiscono a rendere unica quest’opera: l’arguzia della sceneggiatura, l’internazionalità nella costruzione dell’impianto filmico e narrativo, pur senza rinunciare allo slang di una delle borgate più chiuse della capitale, Tor Bella Monaca, ma soprattutto il linguaggio fresco e innovativo che utilizza molti riferimenti della cultura popolare, tra cui i manga televisivi anni 80, la ricerca della facile notorietà grazie alla tv trash dei reality, i super eroi americani; il tutto inserito in un racconto surreale e sorprendente, oltre che molto divertente.
Il protagonista del film, un uomo disilluso dalla vita che rubacchia per sopravvivere tenendosi lontano da amicizie e affetti, in seguito ad una fuga rocambolesca dalla polizia acquisisce dei super poteri di cui non sa che farsene inizialmente.
Questo twist narrativo, ispirato dai filmoni americani della Marvel che stanno ormai saturando il mercato, da il via ad un racconto che si snoda in tutta la capitale, qui fotografata in una magica e surreale crudezza e magnificenza, ma senza le eccentricità stucchevoli de La Grande Bellezza.
Il personaggio femminile del film, Alessia, interpretato in modo sorprendentemente efficace da Ilenia Pastorelli, uscita dalla fucina del Grande Fratello 2012, è una ragazza fragile e ingenua con una probabile storia di violenza alle spalle; è lei a credere nella reale esistenza di Hiroshi Shiba, il pilota del robottone che da il titolo al film, ed è la sua ingenuità la chiave per la redenzione del nostro protagonista, Enzo Ceccotti.
Perchè il Ceccotti, interpretato ottimamente e in modo molto fisico da Claudio Santamaria, oltre ad essersi allontanato da tutto e tutti, non ha più alcun interesse nella vita, dedicata solo al furto, alla visione di porno in tv e alla sua unica passione alimentare, budini alla vaniglia confezionati, praticamente il ritratto di un depresso cronico.
Grazie alla magia del mondo surreale descritto da Alessia, che in lui identifica il suo eroe Hiroshi Shiba, il Ceccotti troverà la forza di riavvicinarsi alla vita e alle persone, scoprendo con sua massima sorpresa, quanta forza è possibile trarre dalla fiducia che degli sconosciuti possono riporre in noi, specie in reazione al compimento di azioni disinteressate.
A ben vedere, il superpotere che il nostro eroe, lontanissimo dagli stereotipi di perfezione fisica e morale che abbiamo conosciuto fino ad oggi, impara finalmente ad utilizzare non è la forza sovrumana o l’invulnerabilità di un superman qualunque, ma una qualità che tutti siamo in grado di sviluppare, perché intrinseca nella natura umana se si decide di applicarla, ovvero l’empatia.
L’empatia è la capacità di comprendere e condividere le emozioni delle persone che abbiamo accanto, siano conoscenti o meno, e si può acquisire ed allenare attivando la propria volontà di relazionarsi con gli altri, un altro grande potere che il protagonista del film inizialmente aveva deciso di non utilizzare più.
Ecco forse spiegata l’empatia che anche lo spettatore prova nei confronti di questa pellicola e dei suoi personaggi spiantati e sopra le righe, anche quando si trovano alle prese con una violenza inaudita, resa surreale dall’elemento fantastico ma visualizzata in maniera cruda e realistica.
Eppure non sono la violenza e la miseria dell’ambiente in cui si svolge la storia che rimangono impressi alla fine del film, bensì un senso di leggerezza e di rinnovata fiducia nell’umanità e nel cinema.