Cavallo Denaro

Un consiglio che vorrei dare a chi ama andare al cinema è quello di non sottovalutarsi.

Spesso sento dire da amici e conoscenti la frase “quel film è roba da intellettuali, non fa per me”. Ma se si ama davvero il cinema credo che sia giusto accettare qualche sfida con se stessi.

E’ vero, c’è il rischio di annoiarsi un po’, ma è anche possibile ricevere molte più gratificazioni di quelle che sia lecito aspettarsi se si decide di affrontare senza pregiudizi la visione di un film d’autore.

Dopo la chiusura delle sale “d’essai”, c’è stato un periodo in cui era difficile assistere a proiezioni di opere un po’ fuori dall’ordinario, se non frequentando festival e rassegne, cosa che richiede un grande impegno e tanta fatica, parlo per esperienza.

Fortunatamente da qualche tempo è diventata comune una nuova formula di distribuzione in alcune sale, spesso decentrate ma anche in quelle più rinomate del centro, che prevede una multi programmazione giornaliera di più titoli, proposti ad orari diversi e per periodi più o meno brevi, a seconda di come il pubblico risponde.

Almeno questo è quanto sta succedendo a Milano, sia in multisale ormai molto frequentate, quali Anteo e Apollo (questa però rischia di sparire per far spazio ad un moderno Apple Store) che in nuovi spazi più inconsueti, come le due sale parrocchiali Beltrade e Ariosto.

Il cinema Beltrade per esempio è una realtà ormai radicata nel panorama cinefilo meneghino, che bisogna far di tutto per preservare, visto che offre la programmazione più originale e diversificata attualmente in città, oltre che la più interessante.

Proprio qui ho affrontato le due sfide più impegnative di questi ultimi mesi da cinefilo curioso.

La prima, che risale allo scorso dicembre, con la visione dell’ultimo film di un regista che conosco da tempo, e che amo follemente, il tailandese Apichatpong Weerasethakul, già vincitore a Cannes nel 2010 con il delizioso “Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti”, distribuito in modo sommario anche in Italia.

Nell’ultimo, “Cemetery of Splendour”, rigorosamente in lingua originale con i sottotitoli, ritroviamo intatta la poetica dell’autore, noto anche i suoi lavori di video art, recentemente visti a Milano in una splendida mostra all’Hangar Bicocca.

Il film, surreale nella sua estatica tranquillità e delicatezza, con l’aiuto di alcuni personaggi archetipi che dialogano sulla situazione sociale e politica tailandese oppure ricordano momenti del proprio recente passato mettendo in scena un affresco della memoria collettiva di un’intera nazione, si erge a manifesto politico e spirituale dell’autore, oltre che a vera e propria dichiarazione d’amore nei confronti della sua terra e del suo popolo.

Il valore di quest’opera sta nel suscitare nello spettatore più curiosità di quelle che soddisfa, alimentando la voglia di conoscere tutto quello che è possibile sapere sui luoghi in cui si svolge l’azione e sui popoli che vi abitano.

Proprio come i ricordi evocati dai personaggi, che nel film si manifestano in modo fisico,  incontriamo persone scomparse e visitiamo luoghi che non esistono più, il ricordo di questo film non svanisce al termine della visione, ma anzi si sedimenta e germoglia fino a suggerire altri significati rispetto a quelli colti durante la proiezione.

Alcuni storceranno il naso all’idea di vedere un film in lingua originale, per di più in tailandese, eppure consiglio di accettare la sfida fino in fondo, perché la forza di un’opera come questa si mantiene solo non snaturandola di alcuno dei suoi elementi, che insieme formano un meccanismo di equilibrio delicatissimo e pertanto fragile.

La seconda sfida è più recente, risale allo scorso mese di aprile, ed è stata ancora più impegnativa, in quanto era la prima volta che assistevo ad un’opera di un celebratissimo regista di culto tra il popolo dei cinefili più estremisti, il portoghese Pedro Costa.

Il film è Cavallo Denaro, del 2104, ultimo in ordine di tempo del regista, il quale riprende i temi e le atmosfere, oltre che il personaggio e l’interprete principale, l’anziano Ventura, del precedente lungometraggio, Juventude em Marcha.

Anche Cavallo Denaro si affida ad una struttura narrativa legata alla rievocazione del passato per parlare del presente.

Tutto gira intorno al 75enne Ventura, il quale, pur confinato in un letto d’ospedale, viene però mostrato anche vagare in una labirintica struttura illuminata da violenti tagli di luce, che danno vita a meravigliose immagini statiche, come tableaux vivants magistralmente costruiti.

Mentre dal suo letto d’ospedale Ventura ascolta una serie di personaggi nel racconto delle loro disgraziate vicissitudini, che descrivono un popolo afflitto dalla miseria sia materiale che umana, nel suo girovagare egli si relaziona con altri personaggi che rappresentano altrettanti archetipi sui quali si fonda un’intera nazione, ad esempio il soldato, o la donna moglie e madre, caposaldo della famiglia.

Naturalmente in un’opera del genere la sfida sta nel mantenere alta la soglia dell’attenzione, perché stiamo assistendo al lavoro di un regista per cui ogni singolo dettaglio, un movimento, l’intesità della luce, l’intonazione della voce, il taglio dell’inquadratura, assume un significato.

Al momento in cui scrivo ammetto di non essere pronto a sviluppare un discorso più ampio su questo autore, visto che non conosco bene la sua opera, ma anche in questo caso lo curiosità che ha suscitato la visione del lavoro e la scoperta di un nuovo linguaggio espressivo, benchè ancora da decifrare completamente, non fa che stimolare l’interesse verso tutto quello che vedrò in seguito, ed è questo, a mio parere, il risultato più soddisfacente che si possa ottenere, per cui valga la pena accettare la sfida e dichiararla vinta.

Autore: Gianfranco Taino

Ho un lato razionale e pragmatico che si manifesta nella facilità a lavorare con i numeri, nel tenere i conti e nell’essere preciso e affidabile, e una forte vena creativa che mi ha permesso di lavorare come consulente musicale per sfilate ed eventi, come giornalista e come deejay.

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