Dato che nel mio ultimo post (In difesa degli estroversi) ho parlato di sensibilità, ho deciso, sotto consiglio di un nume tutelare, di approfondire l’argomento. Così, mi sono messa a studiare e ho fatto una incredibile scoperta, anzi, molte.
Premessa. Sono allergica alla parola “sensibilità” e a tutti i suoi derivati, per cui di solito quando mi capitano sotto gli occhi articoli, video, libri che trattano questo argomento faccio spallucce e penso: “Che menata, un altro articolo che fa sentire speciali”. Nella mia visione del mondo, infatti, speciali lo siamo tutti, perché non esiste un individuo identico a un altro, e sensibili a qualcosa pure.
Questo è un articolo ad alto indice personale: non disponendo di un grande numero di persone da sottoporre a osservazione, ho cercato di osservare me stessa con tutta l’oggettività di cui sono capace, e ho deciso di raccontarvi le mie scoperte personali, non per assurgere a esempio, ma per illustrarvi un processo.
Ed ecco cosa ho scoperto nelle ultime 3 settimane.
Negli anni Novanta, la psicologa statunitense Elanine N. Aron, ha per prima identificato un tratto della personalità che ha denominato ipersensibilità e ha individuato le caratteristiche che contraddistinguono le persone altamente sensibili o high sensitive person (PSA o HSP).
La caratteristica principale delle PSA sta nella loro reazione davanti a un elevato numero di stimoli. Il cervello della maggior parte delle persone, quando si trova a essere sottoposta a un eccesso di stimoli, mette in atto strategie di selezione sulla base delle proprie priorità, così da percepire e processare solamente quelli utili in quel momento. Le persone altamente sensibili, invece, non mettono in atto nessuna strategia, di conseguenza percepiscono e si impegnano a processare tutti gli stimoli contemporaneamente, andando così incontro a un grande dispendio energetico e a uno stato di iperattivazione.
Ma non è solo una questione di quantità, ma anche di qualità. Il cervello ipersensibile infatti analizza tutte le informazioni a un livello molto profondo. Le PSA quindi elaborano tutti gli stimoli da cui vengono investite con la maggiore profondità possibile per ciascuno di essi.
La psicologa Elaine Aron e suo marito, il neurologo Arthur Aron, raggruppano le quattro caratteristiche delle persone ipersensibili nell’acronimo D.O.E.S.:
- D = depth of porcessing, profondo processamento delle informazioni;
- O = overasousability, sovrastimolazione del cervello;
- E = emotional intensity and empathy, forte reazione emotiva ed empatia;
- S = senitivity to subtle stimuli, percezione a tutti gli stimoli anche i più sottili.
Le PSA hanno una forte capacità di intuizione; sono molto empatiche e sanno ben leggere i dettagli delle relazioni sociali; dispongono di una forte impulsività emotiva e possono avere reazioni di forte rabbia o aggressività per dettagli che invece altri considerano irrilevanti; hanno la predisposizione alla mediazione fra le persone; tendono a preoccuparsi eccessivamente e a perdere di vista il quadro generale; elaborano i problemi in profondità e sono efficaci nel trovare soluzioni creative; hanno difficoltà a padroneggiare le proprie emozioni; vivono molto intensamente ogni tipo di situazione; possono sentirsi spesso sopraffatte e per questo hanno bisogno di momenti di isolamento per ricaricarsi; adattano il loro comportamento in funzione degli altri; sanno entrare velocemente in contatto con le persone e aiutarle; sono molto sensibili a luci, rumori, odori.
Alla fine di questa ricerca avevo letto molto e accumulato tutta una serie di nozioni, ma il fastidio continuava. Quando mi ero imbattuta nei forum o blog dedicati alle PSA pensavo ancora di trovarmi di fronte a un gruppo di persone che si stavano raccontando quanto fossero speciali e buone, che continuavano a spostare l’attenzione dal dentro al fuori, da se stessi agli altri, e mi sembrava si commiserassero con l’idea: “le persone non ci capiscono e ci possono fare tanto male”. Inoltre, tutti i test che avevo trovato online erano composti da affermazioni in cui il soggetto doveva indicare il grado di aderenza a sé e alla sua vita, e si capiva facilmente come pilotarne il risultato.
Poi, un giorno, ne ho parlato con un’amica e lei mi ha raccontato che esiste uno stadio successivo a quello delle PSA, ovvero gli empath.
Mi sono quindi rimessa a studiare per capire bene la differenza fra le due categorie. Tutti gli empath hanno le caratteristiche degli ipersensibili, ma se le PSA sono principalmente introverse, gli empath possono essere sia introversi che estroversi; hanno spesso reazioni fisiche oltre che emotive molto intense; vivono solitamente esperienze spirituali forti; hanno un profondo senso di connessione con la natura; tendono a confondere quello che sentono negli altri con quello che sentono veramente loro stessi per cui possono perdere la percezione di sé e del proprio corpo e l’accesso ai propri reali bisogni.
Alla fine mi sono messa a fare anche i test per gli empath, ma quelli che ho trovato erano meno palesi, c’erano domande del tipo “se preferisci la montagna al mare”, e facevo più fatica a prevederne il risultato. Ne ho fatto uno, ne ho fatti due, ne ho fatti altri e poi mi sono arresa e, quando mi sono arresa, improvvisamente è tornato tutto.
Non riesco a vedere un film dove qualcuno si trova in una situazione di imbarazzo, se posso fisicamente cambio proprio stanza, per cui non rido e non amo i vari Fantozzi, e neppure Hollywood Party. Non mi rendo conto degli stati fisici intermedi, il mio corpo ha bisogno di urlare per farsi sentire, per cui di solito capisco che sono stanca solo quando sono stremata. Mio marito ha imparato a nascondermi le notizie di cronaca troppo forti da quando, nell’agosto 2000 leggendo sul giornale del sottomarino nucleare russo Kursk adagiato in fondo al mare, sono scoppiata a piangere e non sono voluta andare in spiaggia perché avevo l’affanno (quest’estate ho scoperto che c’erano dei ragazzini intrappolati in una grotta in Thailandia solo quando erano usciti tutti). Mi bastano due ore in una qualsiasi fiera per poi sentirmi completamente sfinita. Fino a pochissimi anni fa, quando mi trovavo in una situazione di gruppo con persone che non conoscevo, per sentirmi più tranquilla presentavo solo i miei difetti con frasi lapidarie o bruciante autoironia in modo da crearmi una distanza di sicurezza e dal non sentirmi poi in dovere di attendere a qualsiasi aspettativa. Fino ai 20 anni ogni volta che mi sono trovata di fronte a una persona che viveva un grande dolore ho cercato in tutti i modi di sfuggire, anche goffamente: avevo il terrore vero e proprio di essere sovrastata e schiacciata da quel peso. Nelle situazioni in cui vedo un conflitto tendenzialmente mi do alla fuga, o se sono costretta a rimanere poi vado in bagno a vomitare. In alcune situazioni ho degli accessi di rabbia molto intensi da cui poi esco stremata. Nella mia vita lavorativa ho sempre fatto molta fatica ad accettare le critiche o rimostranze o suggerimenti rivolti alle persone con cui collaboravo, mi sentivo incaricata di proteggerli manco fossi un silverback che difende il suo branco di gorilla, risultando quindi totalmente controproducente al miglioramento della squadra. E come queste, altre varie amenità, di cui fare l’elenco esaustivo sarebbe un lavoro troppo lungo per tutti.
Insomma i test dicevano: “sei chiaramente un empath” e la mia vita ne era testimonianza.
Mi sono quindi accorta che, come sempre, il mio fastidio coincideva con qualcosa di me che non volevo ammettere o vedere, e molto probabilmente ero stata la prima vittima del pregiudizio per cui sensibile è uguale a buono, e dato che non mi sento buona avevo semplicemente eliminato la parola sensibilità dal mio dizionario.
Il trovare una chiave di lettura a molti miei comportamenti o reazioni che avevo spesso giudicato inopportuni o faticosi, li ha resi più accettabili, mi ha permesso di non sentirmi più sbagliata, ma solo ultra ipersensibile agli stimoli esterni.
Ho anche scoperto che nella sezione relativa alla capacità di preservarsi, il mio punteggio era molto basso ed ero definita un “out of control healer”: sono la classica persona che desidera aiutare gli altri a occuparsi al meglio di loro stessi ma è così presa da questo desiderio da non fare molto per gestire la propria ansia (la solita storia del calzolaio con le scarpe bucate).
Mi sono sentita smascherata e sollevata contemporaneamente.
Nei giorni successivi ho ripensato e ristrutturato molte idee che avevo di me stessa, ho trovato nuovi posti per nuovi pensieri, nuove ragioni per vecchi ricordi, e poi mi sono decisa a fare alcune cose.
La prima è proprio questa: scrivere un pezzo così personale per vincere la paura e il pudore, e offrire una storia che possa essere utile anche agli altri. Poi, iniziare a studiare alcuni modi per non essere schiava di una definizione, ma trovare delle modalità per agirla e padroneggiarla.
Penso che le categorie, le definizioni, le etichette servano a questo: a capire chi siamo e perché ci comportiamo o ci siamo comportati in quel momento in quel determinato modo, ma che debbano essere anche un luogo da cui partire per vivere meglio con se stessi, un suggerimento per trovare strategie per una vita più piena e felice, ma che poi in un futuro, dobbiamo poterle abbandonare, per trovarne magari di più calzanti e precise, senza aver paura di identificarci in nulla e consapevoli che se siamo fatti al 50% di acqua allora possiamo mutare forma.