Quando mio figlio aveva 8 mesi, siamo andati in vacanza in Grecia. Per i viaggi all’interno della comunità europea i minori hanno bisogno di un documento individuale valido per l’espatrio. Siamo così andati all’anagrafe a fargli la carta di identità. Vi evito il racconto del momento in cui abbiamo fatto una foto tessera a un bambino di 8 mesi che non sta ancora perfettamente seduto, sopra un piccolo sgabello girevole nelle macchinette predisposte, dove c’è odore di piscio, impiegandoci circa mezz’ora e facendo 3 diversi tentativi, per portare l’attenzione sulla poesia che a volte riserva la burocrazia.
Nella carta di identità di un minore ci sono tutti i campi che ci sono nella carta di identità di un adulto, per cui oltre a essere riportati i dati anagrafici, altezza, colore degli occhi e dei capelli, c’è la voce professione. Nella carta di identità di mio figlio, in corrispondenza di questa voce, c’è scritto: infante. In altre parole, il suo lavoro per lo Stato italiano è quello di essere un bambino, di imparare giocando, di stare con i suoi genitori, di scoprire il mondo. Da un bambino non ci si aspetta di più, ci si aspetta solo che sia quello che è, e faccia quello che già fa. Poi a un certo punto cambia qualcosa, non so esattamente quando o a che età; a un certo punto non è più quello che sei che definisce quello che fai ma il contrario, ovvero quello che fai definisce ciò che sei. Inizia presto, con quella definizione di studente o studentessa che compare sulla carta di identità, quando cominciano a chiederti “come va a scuola?”, prima ancora di “come va con gli amici?”. E si arriva alla fine, in cui la domanda “tu cosa fai?” è una delle prime che si rivolge quando si conosce qualcuno.
Per le persone della generazione dei miei genitori, è sempre stata consuetudine presentarsi anteponendo titolo o ruolo professionale al proprio nome: “salve, sono il dottor …”, “piacere, ingegner …”, “buongiorno, sono l’avvocato …”, e così via. Quest’attenzione e mitizzazione del lavoro ha radici antiche: inizia con il Rinascimento, dove il lavoro è civiltà e progresso, e passa attraverso il Protestantesimo, dove il lavoro acquisisce anche una valenza etica e diventa virtù. Le istanze illuministe consegnano al lavoro un valore morale e sociale e, nonostante la rivoluzione industriale lo abbia connotato anche di una dimensione di pena e di sofferenza, il lavoro a tuttora rimane uno spazio di idealizzazione e progettazione, dove la costruzione del proprio ruolo professionale rappresenta il proprio valore economico e sociale. La dimensione professionale finisce quindi per fondersi e confondersi con quella personale, e i successi e i fallimenti sul lavoro diventano i successi e fallimenti della persona.
Ma quanto è faticosa questa totale identificazione? Quanti rischi comporta far coincidere la pienezza dell’uomo con la pienezza del lavoro? E a cosa corrisponde la pienezza del lavoro se non a una pienezza in termini di capacità produttiva (qualunque sia l’oggetto del nostro produrre)? Perché come impieghiamo il nostro tempo ci identifica maggiormente del nostro piatto preferito o del nostro sogno ricorrente? Insomma questo identificarci solamente come esseri che producono, che fanno cose, non ci allontana e ci separa da altri aspetti di noi a cui non lasciamo sufficiente spazio e tempo? Come sarebbe quindi fare del decluttering professionale: iniziare a togliere tempo, spazio, pensiero, aspettative, energie alla nostra vita professionale?
Sinceramente non ho grandi risposte a queste domande. Anzi devo dire che l’idea del decluttering professionale un po’ mi terrorizza perché fa subentrare una più terrificante domanda: “ok, dopo che ho lasciato questo spazio vuoto, qual è la parte di me che voglio far fiorire?”. Rispondere a quest’ultima domanda lo trovo ancora più complicato di qualsiasi lavoro, perché comporta uno sforzo importante, che non ha una direzione dall’interno verso l’esterno e con il fine di produrre qualcosa, ma uno sforzo che rimane tutto interno: lo sforzo di chi ha voglia di conoscersi di più, di portare luce in luoghi sconosciuti, di chi si sente un intrepido esploratore e non teme le proprie zone d’ombra. Ammetto che anche se mi fa un po’ paura, questo viaggio mi affascina molto.
Ci sono anche piccole cose che secondo me è possibile iniziare a fare per levare l’ancora e distaccarsi da quel mondo dove io sono il mio lavoro. Possiamo essere noi per primi a non chiedere a qualcuno che non vediamo da tempo: “cosa fai ora?”. Possiamo cessare di tessere la narrazione di noi stessi attraverso il nostro lavoro. Possiamo chiedere a un ragazzo che sta per iscriversi alle superiori o all’università: “cosa hai deciso di approfondire?” invece di “allora che lavoro vuoi fare da adulto?”. Possiamo modificare quindi il nostro linguaggio perché sappiamo che è co-creatore del nostro pensiero.
Per concludere, vi lascio con una delle riflessioni più illuminanti che ho letto sul lavoro. L’ha scritta una persona per cui nutro forte stima, è un semplice post su Facebook in cui trascrive una conversazione avuta con suo figlio di 4 anni:
– Io da grande voglio insegnare all’università come papà e il nonno.
– Sicuro? Ti dico un segreto: il lavoro che uno sceglie deve essere la cosa che ci diverte di più. A me piace molto giocare, per esempio, quindi ho deciso di fare la maestra.
– Ah… allora io voglio fare il signore che soffia le foglie tutto il giorno ai giardini.
– Ottimo!