Abbiamo tutti bisogno di uno spogliatoio

In quelle serate in cui ho voglia di vedere un film sul divano in tranquillità, un film che mi riempia senza troppa fatica, che sia piacevole e arricchente ma non emotivamente o intellettualmente troppo faticoso, c’è un genere a cui mi affido sempre: i film sullo sport. Perché lo sport, fra tutte le metafore, è una delle mie preferite, nonché a mio avviso una delle più efficaci per comprendere appieno certe dinamiche della vita. Va bene qualsiasi sport, ma ce n’è uno nel mio cuore che funziona più di tutti gli altri.

Non ho ben capito da dove nasca questa passione, forse dalla visione a 14 anni di Field of Dreams (L’uomo dei sogni) o forse di quella a 16 anni di A League of Their Own (Ragazze vincenti), ma il baseball, secondo me, è una perfetta metafora della vita.

Sarà per il ritmo ora lento e dilatato, ora veloce e concitato; o perché in campo ci sono giocatori fisicamente di ogni tipo; sarà perché, al di là della netta divisione fra attacco e difesa, è quest’ultima che dà inizio all’azione lanciando la palla; o ancora che, pur essendo un gioco di squadra, il duello è sempre fra due persone alla volta; sarà che quando fai un punto torni a casa base; sarà che non ci sono limiti di tempo (la partita più corta della storia è durata 51 minuti, la più lunga 36 ore); insomma ogni volta che leggo un libro o guardo un film sul baseball la mia vita diventa sempre più ricca.

Ed è proprio uno dei libri sul baseball che più amo che l’altra mattina ho ritrovato sul pavimento miracolosamente integro dopo il passaggio del neo-bipede di casa. Il libro si intitola L’arte di vivere in difesa. E’ un meraviglioso romanzo di formazione e quando l’ho raccolto era aperto su una pagina dove avevo sottolineato questa frase:

«Secondo l’esperienza di Schwartz gli spogliatoi erano sempre interrati, come i bunker e i rifugi antibomba. Una necessità più simbolica che strutturale. Lo spogliatoio ti protegge nei momenti di maggiore vulnerabilità: appena prima di una partita, e subito dopo (e a metà nel caso del football). Prima della partita devi toglierti l’uniforme che usi per affrontare il mondo e sostituirla con la divisa per fronteggiare il tuo avversario. Nel frattempo sei nudo in ogni senso. In compenso al termine sei carico di emozioni che non puoi portare nel mondo esterno, a meno di non voler essere rinchiuso in un ospedale psichiatrico. Quindi vai sottoterra e te ne liberi. Urli e getti cose per aria, prendi a pugni l’armadietto, pieno di rabbia o di gioia. Abbracci un compagno di squadra o lo insulti, oppure gli tiri un pugno in faccia. Qualunque sia la circostanza lo spogliatoio è un paradiso.»

Ho chiuso il libro e l’ho riposto sulla sua mensola, nel suo posto esatto, nella sezione letteratura americana prima di Hemingway perché l’autore si chiama Harbach, e mi son guardata intorno.

Al momento, il mio salotto è uno spazio polifunzionale: è biblioteca, cinema, studio, stanza dei giochi. In questo posto assumo ruoli differenti: madre, professionista, ospite, moglie, studentessa; è il mio diamante, ma non ho uno spogliatoio perché passo dall’uno all’altro ruolo senza soluzione di continuità. Non ho nessun luogo sotterraneo dove spogliarmi di una divisa e vestire panni completamente diversi. E va anche bene se i ruoli sono prossimi e si accavallano (quando mi vengono a trovare amici mica smetto di essere madre). Ma ce ne sono alcuni che hanno bisogno di uno spazio e un tempo di decompressione. Il lavoro è uno di questi, qualsiasi lavoro si faccia, anche se in pochi hanno a disposizione uno spogliatoio interrato.

Lo spazio per me più simile allo spogliatoio è la mia macchina, ma quando lavoro da casa o devo prendere i mezzi, non posso uscire 15 minuti prima e tornare 15 minuti dopo per fare un giro dell’isolato sulla mia auto. Magari perdendo pure il parcheggio e mandando a ramengo l’effetto riequilibrante dello spogliatoio. Come posso quindi trovare le risorse e cambiarmi di abito in un quotidiano in cui lavoro e vita privata abitano anche gli stessi luoghi fisici?

Per fortuna mi sono venuti in mente tutti i film sulla boxe che ho visto, dove c’è sempre la scena del pugile seduto prima dell’incontro che si fa mettere i guantoni come se stesse vivendo un rito. E poi mi sono ricordata di come Agassi racconta della preparazione della borsa prima di un match, sempre come se fosse un rito. Allora in realtà più che di uno spogliatoio abbiamo bisogno di creare una ritualità. Una ritualità che dia inizio e fine alla nostra giornata lavorativa, anche quando lavoriamo da casa. Che ci permetta di essere efficaci e lontani dalle ansie del quotidiano, e che poi alla fine ci spogli delle fatiche del lavoro. Un piccolo cerimoniale in cui ogni volta riconnettersi al proprio io per rientrare poi nel mondo consapevoli delle mediazioni che dobbiamo fare, anche con noi stessi.

Sarà che sono ossessionata dai riti di passaggio e dalla loro scomparsa nella società occidentale, ma penso che sia necessario individuare un gesto che sancisca l’inizio e la fine di un’azione anche per scollegare il pensiero, che altrimenti può ossessivamente continuare a rivivere e a ritornare su ciò che abbiamo appena vissuto, impedendoci di essere presenti al nostro ora.

Per qualcuno potrà essere lavarsi il viso e mettersi la crema e passare quei 15 secondi a osservarsi allo specchio. C’è chi forse avrà bisogno di fare meditazione, chi una doccia, chi aprire tutte le finestre di casa, chi indossare un anello. Ognuno troverà la sua modalità, ma penso che sia necessario porre attenzione su questo gesto e riempirlo di consapevolezza. Non stiamo andando a vincere una partita e neppure a combattere una battaglia. Stiamo per dedicarci a qualcosa che è parte fondamentale della nostra vita, eppure non è tutta la nostra vita, dove mettiamo in gioco molto di noi ricordandoci sempre che siamo anche molto altro.

Vera Martinelli blog adf

Autore: Vera Martinelli

Credo nella precisione scientifica della pasticceria, nella mia amata Bologna, nell’epica dello sport, nella necessità di ozio, nei rossetti rossi, nei film francesi, in Cocò Chanel, nei fumetti di Little Nemo, nell’alchimia come sentiero di crescita personale, nell’importanza della musica inglese, nella ricerca continua, nei musical al cinema, nel cambiamento, nella supremazia felina, nei percorsi non lineari, nei whisk(e)y torbati, nella luce radente di Caravaggio, nell’ironia e nella leggerezza, in Gino Bartali, nell’assoluta perfezione di tutto ciò che a prima vista appare imperfetto, nella forza e nel suo lato oscuro, nell’almeno il 5% di buono presente in ciascun individuo, nella meditazione, nei passatelli in brodo, che la bellezza salverà il mondo, che la fantasia è un posto dove ci piove dentro e che la narrazione abbia un potere salvifico. Ho fatto molti lavori e alla fine ho capito che avevano tutti a che fare con le persone. Dopo anni di timori ho ammesso a me stessa che volevo che proprio le persone diventassero il mio lavoro. Sto cercando di diventare coach e mentre allevo due giovani padawan studio psicologia perché il sapere non ha mai fine.

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